I versi di Giorgio Caproni sul tempo che senza sosta passa

9 Luglio 2025

Leggiamo questi versi fi Giorgio Caproni tratti dalla prima strofa della poesia "Canzone del giorno che se ne va", in cui viene cantato il tempo.

I versi di Giorgio Caproni sul tempo che senza sosta passa

Giorgio Caproni, poeta dell’inquietudine e del frammento, offre in questi versi tratti da Canzone del giorno che se ne va una riflessione densa e lirica sul tempo che passa e sull’esperienza intima e soggettiva della sua perdita. Attraverso un tono sommesso e dolente, egli ci consegna uno sguardo sulla fine del giorno che diventa anche la fine di un pezzo di vita, di un’identità momentanea, di una verità appena sfiorata. La poesia, come spesso accade in Caproni, è insieme confessione e dissimulazione, slancio lirico e scavo ontologico.

Che fatica mi costa
lasciarti andare, o giorno!
Te ne vai pieno di me,
torni senza riconoscermi.
Che fatica mi costa
lasciare sopra il tuo petto
realtà possibili
di impossibili minuti!

Giorgio Caproni e la sua “Canzone del giorno che se ne va”

“Che fatica mi costa
lasciarti andare, o giorno!”

L’incipit ha il tono di una lamentazione amorosa, di un congedo straziante. Il giorno, personificato, diventa un tu prossimo, intimo, a cui rivolgersi con struggimento. L’atto del “lasciare andare” non è mai banale: implica resistenza, richiede uno sforzo. L’addio non è pacificato, non è naturale. Caproni ci mostra così una relazione profonda tra l’io poetico e il tempo vissuto. Ogni giorno non è un mero contenitore cronologico, ma un corpo, una presenza, qualcosa che si ama e che si fatica ad abbandonare. Il giorno diventa qualcosa a cui ci si affeziona, come se l’io e il tempo vissuto avessero intessuto un legame che, allo svanire della luce, si spezza con dolore.

“Te ne vai pieno di me,
torni senza riconoscermi.”

Questi due versi, fulminanti, fanno emergere un tema caro alla poesia di Caproni: la crisi dell’identità e la scissione del soggetto nel tempo. Il giorno se ne va “pieno” del soggetto: ha raccolto esperienze, gesti, pensieri, emozioni. Il tempo è impregnato dell’io, ma questa assimilazione è unilaterale. Quando il tempo tornerà – il giorno successivo – non saprà più chi è il soggetto che l’ha abitato ieri.

Il riconoscimento fallisce. Questo cortocircuito tra l’io e il tempo produce spaesamento: si avverte una discontinuità esistenziale. L’io si è offerto al giorno, ma non ne riceve in cambio né memoria né identità. Il tempo, nel suo fluire, cancella più che conservare. L’“io” non trova più riscontro in ciò che ha vissuto, si dissolve in un tempo che non lo riflette.

“Che fatica mi costa
lasciare sopra il tuo petto
realtà possibili
di impossibili minuti!”

La ripresa della prima frase, “Che fatica mi costa”, accentua il senso di lamento e lo intreccia ora con un’immagine ancora più forte: il petto del giorno. Qui il tempo non è solo antropomorfizzato, ma diventa quasi un corpo vivente su cui il poeta deposita i frammenti della propria esperienza. Le “realtà possibili” sono speranze, desideri, ipotesi di vita, forse azioni non compiute, parole non dette.

Sono realtà in potenza, che il giorno ha accolto, ma che non si sono realizzate. E i “minuti impossibili” – forse quelli sognati, immaginati, irrealizzabili – sono il contesto temporale in cui queste realtà avrebbero potuto prendere forma. È qui che si coglie tutta la tragicità dell’esistenza: l’essere costantemente a confronto con un tempo che offre possibilità ma non garantisce realizzazione. L’io del poeta si trova ogni giorno a dover accettare che non tutto ciò che ha immaginato, sentito, sperato, abbia trovato spazio nella realtà concreta.

In questa poesia, Caproni ci mostra una forma di lirismo che si interroga sull’incongruenza tra tempo e identità, tra vissuto e memoria. Il giorno se ne va, portando con sé pezzi dell’io, ma è un andarsene sterile, perché il tempo non conserva, non restituisce, non riconosce. È questa la vera fatica: l’esperienza quotidiana del vivere non lascia tracce che possano costituire una storia o una continuità del sé. Ogni giorno si ricomincia da capo, ma senza radici, senza memoria condivisa.

Caproni e il tempo

Lo sguardo di Caproni non è romantico né nostalgico, ma esistenzialmente lucido. La sua è una poesia del disincanto, della consapevolezza dell’inevitabile dispersione dell’essere nel tempo. Eppure, in questi versi, vi è anche una dolcezza, una tenerezza: l’atto poetico diventa il tentativo ultimo di depositare sul petto del giorno la testimonianza della propria esistenza. Anche se il giorno non riconosce il soggetto, la poesia lo fa. È la poesia, allora, che salva: che nomina il dolore, che gli dà forma e lo rende condivisibile.

In Canzone del giorno che se ne va Giorgio Caproni riesce con pochi versi a racchiudere l’essenza del tempo vissuto e della fatica dell’esistere, in una lingua piana e tagliente, capace di trasformare l’esperienza più quotidiana – il tramonto di un giorno – in una vertigine metafisica. È in questo incontro tra realtà concreta e riflessione interiore che la sua poesia raggiunge la sua forza più profonda: quella di parlarci ancora, ogni sera, del giorno che se ne va.

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