I versi di Giorgio Caproni che cercano ancora l’amore

19 Giugno 2025

Leggiamo questi malinconici e, tuttavia, speranzosi, versi di Giorgio Caproni, in cui l'ormai grande poeta si chiede se l'amore canti ancora per lui.

I versi di Giorgio Caproni che cercano ancora l'amore

In questi versi finali della poesia L’ombra della mia anima, Giorgio Caproni ci offre un distillato della sua poetica matura, in cui si fondono disperazione lirica, consapevolezza della dissoluzione del linguaggio e un’invocazione alla resistenza della bellezza. Brevi e spezzati, questi versi vibrano di un’intensità emotiva scarna, esistenziale, e ci accompagnano in un percorso che interroga il senso stesso dell’esistenza, dell’amore e della parola poetica.

L’ombra dell’anima mia!

E un’allucinazione
munge gli sguardi.
Vedo la parola amore
sgretolarsi.

Mio usignolo!
Usignolo!
Canti ancora?

Giorgio Caproni e la ricerca del canto dell’usignolo

Il primo verso, “L’ombra dell’anima mia!”, ci introduce in un paesaggio interiore rarefatto, spettrale. Non è l’anima, ma la sua ombra a manifestarsi, quasi a indicare una perdita, una mancanza radicale. L’anima, tradizionalmente intesa come sede della vita interiore, dell’identità più autentica, qui è assente o forse si è rifratta in una presenza evanescente. L’ombra, di per sé, è ciò che resta, ciò che si proietta in mancanza di luce piena, ciò che annuncia e insieme tradisce un’assenza.

Il verso si presenta isolato, con un’esclamazione che sembra un grido, quasi un’invocazione. Ma ciò che viene evocato è intangibile, irraggiungibile, già oltre la soglia dell’esperienza immediata. È l’incipit di un’allucinazione, di un viaggio in un altrove psichico dove le percezioni si fanno incerte e ambigue.

“E un’allucinazione / munge gli sguardi.” Questo passaggio si carica di una potenza visiva e concettuale sorprendente. L’allucinazione è un vedere ciò che non c’è, un’apparizione che inganna i sensi; ma qui è essa stessa a mungere gli sguardi, verbo inusuale, crudo, che richiama l’idea di spremere, di estrarre forza vitale. I nostri occhi sono svuotati, come animali da latte: la visione non è più nutrimento, ma il contrario. Si è in un mondo rovesciato, dove la percezione stessa diventa strumento di impoverimento.

Giorgio Caproni sembra suggerire che l’atto del vedere, del percepire il reale – e forse anche l’atto poetico – sia giunto a un punto di crisi. Il poeta non possiede più il mondo, ma è posseduto dalle sue illusioni. L’allucinazione diventa l’unica realtà possibile.

La parola “amore” che si sgretola

Forse il cuore più lancinante di questi versi è contenuto in “Vedo la parola amore / sgretolarsi.” Non è l’amore a crollare, ma la sua parola. È il linguaggio stesso che si frantuma. Caproni, come molti autori del secondo Novecento, si confronta qui con la crisi del linguaggio poetico, della sua capacità di dire l’assoluto, di nominare ciò che è essenziale. La parola “amore” – la più carica di pathos, di storia, di mito – non regge più il suo peso, si frantuma sotto lo sguardo del poeta.

Lo “sgretolarsi” è un verbo che indica erosione, perdita lenta e inesorabile di consistenza. Non è una distruzione esplosiva, ma un decadimento, un cedimento strutturale. È una parola che perde coesione, come se fosse fatta di sabbia. È questo lo scenario dell’anima: una realtà interiore che ha smarrito ogni appiglio e ogni riferimento.

Eppure, nei versi conclusivi, si apre un varco. “Mio usignolo! / Usignolo! / Canti ancora?” Il poeta si rivolge a un simbolo classico della poesia e dell’ispirazione: l’usignolo, cantore della notte, incarnazione lirica della bellezza e della memoria. Il tono è al tempo stesso affettuoso e interrogativo. L’usignolo è “mio”, intimo, familiare, ma anche distante, forse muto.

Il canto dell’usignolo non è dato per certo. La domanda “Canti ancora?” è un’implorazione, ma anche una constatazione della possibilità della perdita. Esiste ancora la poesia, se la parola “amore” si è sgretolata? Esiste ancora un canto autentico che possa risuonare nell’ombra dell’anima?

Eppure, proprio nella domanda, nella sua formulazione dolente ma non rassegnata, Caproni lascia aperto uno spiraglio. L’usignolo può ancora cantare. La poesia, anche nella sua fragilità, può sopravvivere come eco, come memoria, come domanda.

Questi versi finali di L’ombra della mia anima sono un esempio straordinario della capacità di Giorgio Caproni di dire l’indicibile, di sondare i margini estremi della parola poetica. In pochi tratti, ci mostra l’evanescenza dell’identità, la crisi del linguaggio, la solitudine dell’anima. Ma nel buio più fitto, lancia un’invocazione – “Canti ancora?” – che è già, in sé, un atto poetico. Perché finché si interroga il canto, finché si attende una risposta, la poesia resta viva. Anche quando la parola “amore” si frantuma, resta il bisogno di dirla. E forse è proprio in quel bisogno, in quella tensione, che abita la verità più autentica della poesia.

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