L’“Inno ai Patriarchi” di Giacomo Leopardi, composto nel luglio del 1822, è un testo poetico di straordinaria forza visionaria e filosofica, che si inserisce nel ciclo degli inni iniziato con l’“Inno a Nettuno”. In questi versi, Leopardi si volge all’antichità mitica e religiosa dell’umanità, evocando i patriarchi biblici come figure simboliche di un’epoca remota in cui l’uomo era ancora in contatto diretto con la natura e con il senso originario dell’esistenza. Il brano che ci interessa si colloca in un momento centrale della canzone, e merita una riflessione approfondita:
«E le quiete selve apre l’invitto
Nostro furor; le violate genti
Al peregrino affanno, agl’ignorati
Desiri educa; e la fugace, ignuda
Felicità per l’imo sole incalza.»
Un’immagine epica della civiltà umana nei versi di Giacomo Leopardi
In questi cinque versi, Leopardi condensa un’immagine potente e drammatica della storia umana come forza distruttrice e inarrestabile, che invade e trasforma la natura e i popoli, piegandoli a un destino di sofferenza. Le “quiete selve” sono il simbolo della natura originaria, silenziosa, armoniosa, immobile nella sua purezza. Ma esse vengono “aperte”, cioè squarciate, violate, devastate, da un “invicto furor”, il “nostro furor”: l’impulso civilizzatore dell’umanità, che Leopardi qui presenta non come progresso, bensì come forza cieca, violenta, devastatrice.
Non è difficile leggere in questo passaggio una critica anticivilizzatrice e pre-romantica, che rievoca anche l’eco del mito del “buon selvaggio” di Rousseau. L’uomo moderno, corrotto e allontanato dalla natura, invade il mondo con il suo furore, portando non ordine, ma caos.
La condizione umana come destino di sofferenza
Le “violate genti” rappresentano i popoli conquistati, colonizzati, o semplicemente soggiogati dalla forza espansiva della storia. Questi popoli, forse una volta liberi o almeno ignoranti del dolore, sono ora “educati” — si noti l’ironia amara — “al peregrino affanno” e “agli ignorati desiri”. L’espressione è tra le più incisive di Leopardi: il dolore viene insegnato, trasmesso come un sapere necessario, e con esso nascono desideri nuovi, mai conosciuti prima — desideri non naturali, ma artificiali, derivanti dalla perdita dell’equilibrio originario. La cultura, la società, l’organizzazione complessa della vita umana, anziché migliorare la condizione dell’uomo, sembrano peggiorarla irrimediabilmente.
L’inseguimento della felicità perduta
Il climax si raggiunge nel verso finale:
“E la fugace, ignuda / Felicità per l’imo sole incalza.”
Qui la felicità viene personificata: è fugace, senza veli, quindi nuda, fragile, esposta; e viene “incalzata”, cioè inseguita con affanno, nel profondo dell’abisso (“imo sole”, cioè nel fondo più oscuro della terra, lontano dalla luce e dalla vita). L’immagine è fortemente simbolica: la felicità, che un tempo poteva essere parte dell’esistenza umana naturale, oggi è ridotta a una figura sfuggente, irraggiungibile, perseguitata dalla frenetica azione umana.
Leopardi mostra qui una consapevolezza tragica: la modernità rincorre la felicità come un’ombra, ma più cerca di raggiungerla, più essa si ritrae. Questo è il grande paradosso della civiltà: l’uomo ha infranto il patto con la natura, ha fondato società e imperi, ma in cambio ha ottenuto infelicità, desideri insaziabili, e inquietudine perpetua.
Il contesto filosofico e mitico dell’inno
Nel commento che Leopardi stesso allega al suo manoscritto, egli descrive l’intenzione dell’opera: celebrare i patriarchi biblici, non come figure religiose canoniche, ma come testimoni di un’umanità primitiva e meno infelice. Egli riconosce che già allora esistevano le colpe e i dolori (Caino, la morte, l’esilio), ma li contrappone al degrado estremo della modernità.
L’autore si concentra sul progresso come declino: a ogni generazione successiva, la condizione umana peggiora. Adamo ed Eva commettono il primo fallo, ma la stirpe umana, nei secoli, si abissa in colpe e dolori ben più gravi. Noè salva l’umanità, ma solo per vederla peggiorare. I patriarchi come Abramo, Isacco e Giacobbe conducono una vita pastorale, semplice, più vicina alla natura — ed è a loro che Leopardi guarda con nostalgia e ammirazione.
Un’età dell’oro perduta
Nel cuore del testo vi è la consapevolezza che l’uomo ha perduto un’età dell’oro, non per leggenda ma per realtà storica e antropologica. Come nel mito greco, o nelle descrizioni di viaggiatori settecenteschi che narrano di popoli “felici” e non corrotti dalla civiltà, la felicità non consiste nel dominio della natura, ma nel viverla. Quei popoli che ancora abitano le selve e le montagne — come Leopardi evoca nelle ultime pagine del suo abbozzo — sono forse i soli uomini felici, perché ignari della civiltà, dell’ambizione, del potere, della tecnica. La loro felicità non è costruita, né artificiale: non conoscono il desiderio indotto, e per questo non soffrono la sua mancanza.
Con questi versi, Giacomo Leopardi denuncia con lucidità e forza lirica la condizione tragica dell’uomo moderno, che ha sostituito la comunione con la natura con una corsa cieca verso una felicità che non può mai ottenere. L’“invitto furor” che apre le selve e piega i popoli non è altro che il progresso stesso, nella sua veste più brutale. E la “felicità ignuda”, spogliata del suo valore autentico, è il miraggio che ci spinge, ma che sempre ci sfugge. In questa visione amara ma potentemente attuale, Leopardi non solo riflette sulla storia umana, ma anticipa inquietudini moderne, rendendosi profeta della crisi della civiltà.