Alcune frasi di Hanna Arendt possono aiutare a dare senso al perenne dibattito che riguarda il mondo della scuola, il continuo conflitto insegnanti studenti, che ormai non esclude quello tra insegnanti e genitori. Molte volte basterebbe leggere qualche pagina di un saggio filosofico per avere gli stimoli giusti per procedere a migliorare le cose, senza per questo manifestare l’arroganza di avera la giusta soluzione.
Se osserviamo bene la società, i media parlano continuamente di educazione e scuola, ma allo stesso tempo sembra metterle in crisi permanente. La mancanza di risorse, l’erosione dell’autorevolezza dei docenti, la trasformazione digitale, le disuguaglianze sociali, i mutamenti della famiglia. Tutto concorre a rendere l’insegnamento un terreno di conflitto e incertezza.
Il dibattito è costante: che cosa deve insegnare la scuola? Qual è il ruolo dell’insegnante in una società in cui la conoscenza è accessibile ovunque, e spesso più velocemente sul web che in aula? Come conciliare l’urgenza di trasmettere competenze con il bisogno di educare cittadini responsabili, capaci di affrontare le sfide globali?
In questo scenario, le parole di Hannah Arendt tratte dal saggio La crisi dell’istruzione, incluso nel suo libro Tra passato e futuro, pubblicato per la prima volta nel 1961, possono apparire se non necessarie, quantomeno utili.
“La crisi dell’educazione” per Hanna Arendt
La crisi dell’educazione di Hanna Arendt è un saggio che ancora oggi illumina il dibattito sul ruolo della scuola e degli insegnanti. Non è un manuale di pedagogia, ma una riflessione filosofica e politica. L’educazione, scrive Arendt, non riguarda soltanto i bambini, ma il destino stesso del mondo.
Una duplice responsabilità
Per Hanna Arendt, educare significa assumersi una doppia responsabilità, verso il mondo, che deve essere custodito, conservato e trasmesso, e verso i figli, che non vanno né abbandonati a sé stessi né privati della loro capacità di portare nel mondo qualcosa di nuovo e imprevedibile.
L’educazione è dunque il luogo in cui si decide se gli adulti amano abbastanza il mondo da salvarlo e abbastanza i figli da prepararli a rinnovarlo.
La filosofa distingue con chiarezza due sfere. La prima è lafamiglia, che appartiene al privato, è lo spazio dell’amore incondizionato e della protezione. La seconda è la scuola, che appartiene al pubblico, rappresenta un ponte verso la società, non è ancora il mondo, ma lo prepara. Qui il bambino comincia a essere giudicato per ciò che fa e a diventare membro di una comunità più ampia.
Confondere queste due dimensioni significa compromettere la funzione stessa dell’educazione.
Autorità e crisi contemporanea
Un nodo cruciale che emerge dall’analisi di Hanna Harendt è la differenza tra autorità e autoritarismo. L’autoritarismo si basa sulla forza e sulla coercizione; l’autorità, invece, nasce dalla responsabilità che gli adulti si assumono verso il mondo che presentano ai giovani.
L’insegnante, scrive Arendt, è autorevole non perché ha titoli o conoscenze superiori, ma perché si fa garante del mondo, mostrando implicitamente: “Ecco, questo è il nostro mondo”.
La crisi dell’educazione contemporanea coincide con la perdita di questa autorità. Un vuoto che lascia i giovani senza guide e gli adulti incapaci di assumersi la responsabilità del mondo comune.
Critica al progressismo educativo
Arendt mette anche in discussione alcune tendenze dell’educazione progressista:
1.l’illusione di un “mondo dei bambini” separato, che finisce per isolarli;
2. la sostituzione del sapere con il solo “saper fare”, che svuota la scuola della trasmissione culturale;
3. l’idea di un apprendimento ridotto a gioco, che priva il bambino della serietà e dell’impegno necessari per crescere.
Secondo Arendt, queste pratiche accentuano lo smarrimento della scuola e indeboliscono il compito fondamentale dell’educazione.
Le frasi di Hanna Arendt sull’educazione e l’insegnamento oggi
Ci sono parole che, lette a distanza di decenni, sembrano scritte per il nostro presente.Vogliamo condensare in due frasi di Hanna Arendt, tratte dal suo saggio, la sfida eterna dell’educare.
Il ruolo dell’insegnante
La prima frase chiave di Arendt riguarda il ruolo dell’insegnante, ed è forse quella che più di tutte mette in luce la differenza tra sapere e responsabilità:
“L’insegnante si qualifica per conoscere il mondo e per essere in grado di istruire altri in proposito, mentre è autorevole in quanto, di quel mondo, si assume la responsabilità. Di fronte al fanciullo è una sorta di rappresentante di tutti i cittadini adulti della terra, che indica i particolari dicendo: ecco il nostro mondo.”
In queste parole c’è un ribaltamento radicale rispetto a come spesso concepiamo la professione docente. L’insegnante non è un semplice mediatore di contenuti né un funzionario che applica programmi e metodi. Non è nemmeno il “facilitatore” neutrale che accompagna un processo di apprendimento. È qualcosa di più, e di molto più esigente: è colui che si fa garante del mondo.
Le sue qualifiche, cioè la preparazione disciplinare e la capacità di insegnare, sono condizioni necessarie ma non sufficienti. Possono rendere l’insegnante competente, ma non automaticamente autorevole. L’autorevolezza nasce solo quando il docente si assume la responsabilità di ciò che trasmette: dei contenuti, della verità dei fatti, della tradizione culturale, ma anche delle contraddizioni e dei conflitti che segnano il mondo.
Dire “Ecco il nostro mondo” davanti agli studenti significa molto più che illustrare nozioni di storia, matematica o letteratura. Significa riconoscere di essere parte di una comunità adulta che consegna il mondo ai nuovi arrivati, assumendo su di sé il peso e la dignità di questo passaggio. È come dire: “Non l’ho fatto io questo mondo, non sempre lo approvo, talvolta vorrei fosse diverso. Ma è il nostro, e io mi assumo la responsabilità di fartelo conoscere.”
Questa visione rende chiaro perché Arendt distingua tra autorità e autoritarismo. L’autorità non è un’imposizione dall’alto né il frutto della paura: non nasce dal potere, ma dalla fiducia che i giovani ripongono negli adulti che si assumono la responsabilità del mondo. In questo senso, l’autorità educativa è fragile e preziosa, perché può esistere solo finché gli adulti non abdicano al loro compito.
Approfondendo questo aspetto, possiamo dire che Arendt affida agli insegnanti un compito politico in senso alto: non la politica delle istituzioni o dei partiti, ma quella che riguarda la vita comune. Educare significa custodire la possibilità di un mondo condiviso. Ogni volta che un insegnante entra in classe, porta con sé non solo la sua disciplina, ma anche un pezzo del mondo che trasmette, e lo consegna come bene comune.
In tempi in cui l’insegnante rischia di essere ridotto a burocrate, coach motivazionale o semplice “fornitore di competenze”, queste parole hanno una forza dirompente. Ricordano che la scuola non è un servizio come gli altri, ma un luogo in cui si decide del futuro del mondo comune. Perché se nessuno si assume la responsabilità di dire “Ecco il nostro mondo”, il rischio è che il mondo stesso si perda, frantumato tra frammenti di informazioni, algoritmi e solitudini digitali.
Educare come atto di amore verso il mondo e verso i bambini e i ragazzi
La seconda frase di Arendt che riesce a dare senso al messaggio contenuto nel suo saggio, è forse una delle più celebri e più dense di significato, capace di riassumere in poche righe la posta in gioco dell’educazione:
“L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo di esseri nuovi, di giovani. Nell’educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balìa di se stessi, tanto da non strappargli di mano la loro occasione d’intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa d’imprevedibile per noi; e prepararli invece al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti”
In questa citazione di Hanna Arendt si intrecciano amori e responsabilità inseparabili. L’amore per il mondo, l’amore per i bambini, i ragazzi, figli.
Per Hanna Arendt, il mondo non è un’astrazione: è il tessuto concreto di istituzioni, linguaggi, tradizioni, opere d’arte, scoperte scientifiche, regole, memorie. È ciò che gli esseri umani hanno costruito nel tempo, e che rischia sempre di andare in rovina se non viene consegnato alle nuove generazioni.
Amare il mondo significa non abbandonarlo al disfacimento, ma assumersene la responsabilità. L’educazione, allora, non è neutrale: è un atto politico e conservativo nel senso più alto, perché custodisce ciò che senza trasmissione si perderebbe per sempre.
Ma c’è l’amore, altrettanto decisivo per le nuove generazioni. Amarli non significa lasciarli liberi a tutti i costi, né tantomeno dominarli o plasmarli a nostra immagine. Amarli, dice la filosofa tedesca, significa non escluderli dal mondo (con il rischio di lasciarli in balìa di sé stessi, privi di strumenti), ma anche non strappargli di mano la possibilità di cominciare qualcosa di nuovo. Ogni bambino porta con sé la “natalità”, la capacità di inaugurare inizi, di introdurre l’imprevedibile. L’educazione deve proteggere questa libertà di iniziare senza spegnerla.
Qui si coglie tutta la tensione dell’educazione: trasmettere e conservare, ma anche aprire e liberare. Non è facile, perché l’adulto può cadere in due eccessi simmetrici. Da un lato, l’autoritarismo, che impone il mondo così com’è e soffoca ogni novità. Dall’altro, l’abdicazione, che rinuncia a presentare il mondo e lascia i giovani soli, illudendosi che si autoregolino da sé.
L’amore autentico, secondo Arendt, sta nel mezzo, ovvero nel saper custodire il mondo senza esserne gelosi, trasmetterlo senza trasformarlo in prigione, accompagnare i figli senza sostituirsi a loro.
In sintesi, per la pensatrice tedesca, educare non è mai un gesto privato, confinato nella sfera domestica. È un compito comune, un atto politico nel senso più profondo. È la decisione che bisogna saper prendere se il mondo avrà ancora futuro, se potrà essere salvato dalla rovina e rigenerato da chi vi entrerà domani. In questo senso, educare è davvero il gesto più amorevole e più radicale che una società possa compiere.
Il compito della scuola oggi: custodire il mondo e prepararlo al rinnovamento
Le parole di Hannah Arendt mostrano con chiarezza che l’educazione e l’insegnamento non sono mai una questione puramente tecnica o organizzativa, ma riguarda il cuore stesso della convivenza umana. Le due frasi che abbiamo analizzato ci consegnano il nucleo di questa verità: l’insegnante è autorevole solo quando si assume la responsabilità del mondo che trasmette, ed educare significa amare abbastanza il mondo da salvarlo e i figli da prepararli a rinnovarlo.
Dentro queste immagini c’è la misura della sfida che abbiamo davanti. In un tempo in cui la scuola è spesso ridotta a un luogo di prestazioni, voti, competenze da certificare, Hanna Arendt ci ricorda che insegnare è prima di tutto un gesto politico e affettivo. È assumere il peso del mondo e, nello stesso tempo, lasciare spazio alla possibilità che esso cambi. Non è un compito neutro, e nemmeno un servizio tra gli altri. È la condizione stessa perché il mondo continui ad esistere come spazio comune e condivisibile.
Oggi, più che negli anni ’50 in cui queste riflessioni furono scritte, la scuola e l’educazione vivono un duplice rischio: da un lato la tentazione di diventare un laboratorio di adattamento alle tecnologie e alle logiche di mercato; dall’altro la spinta a dissolversi in un orizzonte frammentato, senza autorità e senza memoria, dove tutto si confonde in un presente liquido. In entrambi i casi, il pericolo è lo stesso: consegnare ai giovani un mondo incomprensibile o inesistente, privandoli della possibilità di farlo proprio e rinnovarlo.
Hanna Arendt ci invita a un atto di coraggio. Serve presentare il mondo per quello che è, assumendocene la responsabilità, e insieme credere che i giovani possano trasformarlo oltre la nostra immaginazione. Non c’è gesto più radicale, non c’è investimento più alto. Perché nell’educazione non si gioca solo il destino dei singoli, ma il futuro stesso del mondo comune.