Una frase di Dostoevskij svela il senso vero della felicità e dello stare bene

21 Ottobre 2025

Scopri la frase di Dostoevskij che rivela perché l’uomo è infelice e come la consapevolezza può diventare la chiave della felicità autentica.

Una frase di Dostoevskij svela il senso vero della felicità e dello stare bene

I grandi classici sono eterni perché riescono a donare riflessioni senza tempo. Una frase di Dostoevskij torna oggi di straordinaria attualità di fronte alle contraddizioni di una società in cui il progresso tecnologico non ha portato serenità, ma ha amplificato il senso di smarrimento.

Si vive in un’epoca di benessere materiale e malessere interiore, dove l’infelicità cronica, l’ansia e la frustrazione sono diventate le nuove malattie collettive. Ecco perché questa frase appare più attuale che mai.

L’uomo è infelice perché non sa di essere felice; solo per questo. Tutto, tutto qui! Chi riuscirà a capirlo, diventerà subito felice, immediatamente…Tutto è bene, tutto. Tutto è bene per colui che sa che tutto è bene. Se sapessero di stare bene, starebbero bene, ma finché non sapranno di stare bene, staranno male. Ecco tutta l’idea, tutto, non ce n’è un’altra.

La frase di Fëdor Dostoevskij è tratta dalla dalla quinta sezione del Capitolo primo della seconda parte del suo libro I demoni, romanzo pubblicato in volume per la prima volta nel 1873.

Le parole del grande scrittore russo, nella loro apparente semplicità, racchiudono una verità disarmante. Nel contesto del romanzo, questa frase non è solo una riflessione morale, ma un atto di ribellione metafisica. È l’affermazione del libero arbitrio dell’individuo contro il timore di Dio e contro ogni forma di dipendenza spirituale.

Il contesto della frase di Dostoevskij

La scena in cui viene pronunciata la frase si trova nella seconda parte de I demoni, in uno dei momenti più intensi del romanzo.
Kirillov vive in una casa modesta dove si trovano anche una vecchia e un bambino. Il piccolo gioca con una palla rossa, ride, batte le mani, e Kirillov lo segue con sguardo affettuoso, raccogliendo la palla e rilanciandola.

Mentre la vecchia porta via il bambino, entra Nikolaj Vsevolodovič Stavrogin, protagonista enigmatico e tormentato del romanzo. È venuto a chiedere a Kirillov di fargli da padrino per un duello imminente. Sul tavolo c’è il tè, un lume acceso rischiara la stanza.

Dopo aver parlato del duello e delle pistole, la conversazione si sposta su temi più profondi. Stavrogin domanda a Kirillov se ama la vita, se crede in Dio, se teme la morte. Kirillov risponde che ama la vita ma che la morte non esiste. Dice che in certi momenti il tempo si ferma e diventa eterno.

Da questo punto il dialogo si apre a una visione radicale. Kirillov spiega che l’uomo potrà essere libero solo quando non avrà più paura della morte e non avrà più bisogno di Dio per esistere. In quel momento, dice, l’uomo diventerà uomo-Dio. È questa liberazione assoluta, oltre il timore e la fede, che gli fa dire che “tutto è bene”.

I demoni di Fëdor Dostoevskij e l’ansia dello stare bene e della felictà

La frase di Dostoevskij sembra offrire una via semplice alla felicità, ma in realtà nasconde una delle riflessioni più complesse e drammatiche della sua opera. A pronunciarla non è un uomo sereno, ma Kirillov, l’ingegnere che, nel tentativo di liberarsi da Dio, finisce per trasformarsi in un demone della ragione.

Dopo aver parlato del duello e mostrato le pistole, la conversazione tra Kirillov e Stavrogin si trasforma in un dialogo filosofico. Stavrogin, con la sua calma lucida, ascolta e incalza un uomo che ormai sembra vivere fuori dal mondo, immerso in un’idea assoluta.

«Amate i bambini?» chiede Stavrogin.
«Sì, li amo» risponde Kirillov.
«Dunque amate anche la vita?»
«Sì, amo anche la vita.»
«Ma se avete deciso di spararvi?»
«E allora? Perché le due cose insieme? La vita è una cosa, questa è un’altra. La vita esiste, la morte non esiste affatto.»

Kirillov parla con tono fermo, senza esitazioni.
Spiega che in certi momenti il tempo si ferma e diventa eterno. Racconta di aver avuto una rivelazione mentre camminava per la stanza, una notte. Dice di aver guardato una foglia gialla, mossa dal vento, e di aver compreso che tutto è bello, che tutto è bene.

Stavrogin lo ascolta in silenzio.
Ma poi, come per metterlo alla prova, gli chiede se davvero crede che ogni cosa sia bene. Kirillov non si ritrae, e la sua risposta svela il lato oscuro del suo ragionamento.

«Se uno muore di fame, se uno oltraggia o disonora la bambina, è bene?» chiede Stavrogin.
«Sì, è bene. Chi si romperà la testa a causa di una bambina, è bene; e chi non si romperà la testa, anche questo è bene. Tutto è bene, tutto. Tutto è bene per colui che sa che tutto è bene. Se sapessero di stare bene, starebbero bene, ma finché non sapranno di stare bene, staranno male. Ecco tutta l’idea, tutto, non ce n’è un’altra» risponde Kirillov.

In questo punto del dialogo, Dostoevskij porta il pensiero del suo personaggio al limite dell’abisso. Kirillov non distingue più il bene dal male, perché crede che tutto sia giustificato dalla conoscenza assoluta. È l’uomo che, sostituendosi a Dio, dissolve ogni confine morale.

Per Dostoevskij, questa è la forma più alta e insieme più terribile dell’orgoglio umano. Kirillov vuole dimostrare che la felicità e la libertà si raggiungono solo superando la paura della morte e rinunciando a Dio. Ma questa liberazione diventa la sua condanna. L’uomo che crede di poter essere Dio finisce per perdere l’umanità.

Dietro il suo “tutto è bene” non c’è la pace della fede, ma il vuoto della ragione spinta all’estremo. La felicità di Kirillov è quella di chi ha smesso di sentire, di chi si è isolato in un sapere sterile e disperato. Il suo sapere di “stare bene” non è consapevolezza, ma follia logica, la presunzione di chi pensa di poter redimere il mondo con il pensiero.

Dostoevskij non condanna la ricerca della felicità, ma mostra il pericolo di un sapere senza amore. La vera consapevolezza non è affermare che tutto è bene, ma riconoscere il bene. La felicità autentica non nasce dall’abolizione del male, ma dalla capacità di non separarsi dal mistero della vita.

Kirillov crede di aver trovato la formula della felicità, ma in realtà ne svela la negazione. Sapere di stare bene, se è solo un atto della mente, non basta.

Per Dostoevskij, la felicità è un atto del cuore, un atto di fede e di relazione. Solo chi accetta di non essere Dio può davvero vivere in pace.

La lezione della frase di Dostoevskij alla società contemporanea

La riflessione di Dostoevskij è una profezia che attraversa il tempo. Kirillov non è solo un personaggio dell’Ottocento, è il ritratto anticipato dell’uomo contemporaneo, dell’individuo che ha voluto farsi Dio ma ha scoperto di non poterlo essere. Nel suo desiderio di libertà assoluta, l’uomo-Dio di Dostoevskij ha ottenuto l’effetto opposto: la solitudine, la paura, il disincanto.

L’uomo di oggi vive immerso in un mondo che promette il controllo totale su ogni cosa. Può modificare la realtà, il corpo, il tempo, la memoria. Può accedere a tutto, ma non riesce più a sentire nulla.

Come Kirillov, crede di essersi liberato dal timore della morte, ma in realtà ne è ossessionato. Ha sostituito la preghiera con la produttività, la contemplazione con l’efficienza, la fede con la connessione continua.
E così, nella corsa verso l’autonomia assoluta, ha perso la dimensione più umana: quella della dipendenza dal mistero, del limite, del silenzio.

Dostoevskij mostra che la libertà senza Dio non è libertà, ma smarrimento. L’uomo-Dio di Kirillov non ha abolito la paura della morte, l’ha solo resa più sottile e pervasiva.

Non è più la paura della fine, ma la paura del vuoto, dell’insensatezza, della mancanza di direzione. È la stessa paura che oggi prende la forma dell’ansia, dell’insonnia, della depressione, del bisogno continuo di conferme. È la paura di non bastare, proprio nel momento in cui crediamo di poter tutto.

Per Dostoevskij, la felicità non è un atto di dominio ma di riconciliazione.

Non nasce dalla pretesa di sapere tutto, ma dalla capacità di riconoscere che tutto è, anche ciò che non comprendiamo.
Kirillov, negando Dio, nega la vita come dono, e in questo gesto assoluto rivela il destino dell’uomo moderno: un essere che cerca la verità solo nella ragione e finisce per trovarvi il nulla.

La lezione di Dostoevskij è che la felicità non può esistere dove manca la trascendenza.

Sapere di stare bene, nel senso più autentico, non è una conoscenza mentale, ma un atto di fede nel valore dell’esistenza. È accettare che la vita sia imperfetta, fragile, incomprensibile, eppure degna di essere amata.

Oggi, in una società che ha reso l’uomo misura di tutte le cose, queste parole risuonano come un richiamo necessario. Abbiamo creduto di liberarci dal divino, ma abbiamo solo cambiato divinità: adoriamo la velocità, l’efficienza, l’immagine di noi stessi. Eppure continuiamo a essere infelici, perché non sappiamo più “di stare bene”.

Forse il segreto di Fëdor Dostoevskij è proprio questo: la felicità non è un diritto, è una rivelazione.

E non si conquista rinunciando a Dio, ma ritrovando in noi la capacità di credere, di amare e di accettare la vita nella sua interezza. Chi riconosce il mistero, chi non teme la propria finitezza, chi accetta di non essere Dio, torna finalmente a stare bene.

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