C’è un momento, nel rumore continuo del presente, in cui le parole smettono di scorrere e chiedono di essere ascoltate davvero. Accade per una frase di Charles Dickens scritta quasi due secoli fa che riesce a descrivere con precisione inquietante il nostro tempo, fatto di egoismi normalizzati, di violenza che diventa cronaca abituale, di guerre che scorrono sugli schermi senza più ferire la coscienza collettiva.
La citazione di Charles Dickens tratta da Canto di Natale nasce in un’epoca di povertà e disuguaglianze feroci, ma oggi risuona come un avvertimento e insieme come una possibilità. Non parla di luci, di regali o di celebrazioni rassicuranti. Parla di cuori chiusi, di persone dimenticate, di una società che per un breve istante sembra ricordarsi che nessuno è un’“altra razza”, ma parte dello stesso viaggio umano.
In un presente segnato da crisi economiche, conflitti armati e acredine permanente, quelle parole svelano perché il Natale non è un lusso emotivo né una parentesi folkloristica, ma un bisogno profondo: l’ultimo spazio simbolico in cui l’umanità prova a riconoscersi ancora come tale.
È in questo contesto che una frase di Charles Dickens, pronunciata dal nipote di Scrooge, torna a chiedere attenzione:
«Ci son tante cose dalle quali avrei potuto trarre del bene e delle quali non ho approfittato» ribatté il nipote.
«E Natale è una di queste. Ma sono certo di aver sempre pensato al Natale, quando arriva – a parte la venerazione dovuta al suo sacro nome e alla sua origine, se il Natale può essere separato da tutto questo – come a un bel momento: un momento di gentilezza, di perdono, di attenzione agli altri, di gioia: il solo momento che io conosca, nel lungo calendario dell’anno, nel quale uomini e donne sembrano intendersi sul fatto di aprire liberamente i cuori chiusi, e di pensare alle persone meno fortunate come se fossero veramente compagne di viaggio verso la tomba, e non un’altra razza di creature destinate ad altri viaggi.
Quindi, zio, anche se non mi ha mai portato in tasca un briciolo d’oro o d’argento, sono convinto che mi abbia fatto bene, e che me ne farà; e dico che Dio lo benedica!»
Non è un discorso religioso. È una dichiarazione profondamente umana.
Il Natale come tempo morale: il contesto di Canto di Natale
La frase di Charles Dickens non nasce in astratto. L’autore britannico la colloca all’inizio del racconto, nel primo capitolo del Canto di Natale, prima che Ebenezer Scrooge, un ricco uomo d’affari avaro e cinico, simbolo di una società che misura il valore umano solo in termini economici, inizi il suo percorso di trasformazione verso l’empatia, la responsabilità e i legami con gli altri.
A pronunciare però la frase nel libro è il nipote di Scrooge, Fred, figura affettiva e marginale, che incarna una visione del mondo alternativa a quella del protagonista. Il suo intervento non serve a commuovere, ma a smascherare e dimostrare che l’idea di Natale come tempo morale esiste già, anche se Scrooge ha scelto di ignorarla.
Dickens chiarisce così che Canto di Natale non è una favola sulla bontà improvvisa, ma una critica a una società che ha ridotto il valore umano a parametro economico e la società in puro egoismo.
Il Natale diventa il momento in cui questa riduzione viene sospesa e la comunità è costretta a guardarsi allo specchio.
Il significato profondo della frase di Dickens
Quando il nipote di Scrooge afferma di aver “sempre pensato al Natale, quando arriva”, Charles Dickens chiarisce che non sta parlando di un entusiasmo occasionale, ma di un’esperienza che ritorna e lascia un segno. Il Natale non è una festa che si consuma in un giorno, ma un appuntamento ciclico che interroga l’essere umano su ciò che è diventato nel corso dell’anno.
La precisazione “a parte la venerazione dovuta al suo sacro nome e alla sua origine” compie un gesto decisivo. Senza negare la dimensione religiosa, Dickens la mette tra parentesi per affermare che il valore del Natale non è riservato ai credenti, ma appartiene a chiunque riconosca nella relazione con l’altro un principio fondante della convivenza umana.
Definendolo semplicemente come “un bel momento”, lo scrittore sottrae la festa alla retorica e al trionfalismo, restituendole una bellezza sobria, fatta di qualità morali concrete: gentilezza, perdono, attenzione agli altri, gioia. Non virtù eroiche, ma gesti quotidiani che richiedono un disarmo interiore.
Quando Dickens afferma che questo è “il solo momento” del lungo calendario dell’anno in cui qualcosa cambia, introduce una nota lucida e malinconica: il Natale è un’eccezione fragile in una società che per il resto del tempo accetta la durezza come norma.
Eppure, proprio in questa eccezione, uomini e donne “sembrano intendersi”, non diventano improvvisamente migliori, ma si accordano sull’idea di poterlo essere, anche solo per un istante. L’immagine dei “cuori chiusi” descrive una condizione diffusa, fatta di paura e difesa, non una colpa morale. Il Natale invita ad aprire ciò che è già umano ma irrigidito.
Pensare alle persone meno fortunate come “compagne di viaggio verso la tomba” è il gesto più radicale dell’intera frase, perché introduce una verità che disturba ogni gerarchia: la vulnerabilità è universale e il destino finale è condiviso. Dickens smaschera così il meccanismo che trasforma gli altri in un’“altra razza”, in vite separate e disumanizzate.
Quando il nipote riconosce che il Natale non gli ha mai portato oro o argento, la risposta alla logica di Scrooge è definitiva. Il bene che conta davvero non è monetizzabile, ma lascia un effetto silenzioso e duraturo.
Dire che il Natale “ha fatto bene” e “ne farà” significa affermare una fiducia rara, quella in un bene che agisce nel tempo senza clamore. E quel “Dio lo benedica” finale non è una formula rituale, ma un augurio universale, ovvero che venga custodito tutto ciò che impedisce agli esseri umani di diventare definitivamente estranei gli uni agli altri.
Perché queste parole parlano ancora al nostro tempo
Le parole di Charles Dickens continuano a offrire il loro valore perché intercettano un errore che il tempo presente compie in modo sempre più consapevole: confondere il conflitto con la verità e lo scontro con la forza morale. L’epoca contemporanea sollecita costantemente l’acredine, premia il linguaggio aggressivo, trasforma la contrapposizione in spettacolo e la violenza verbale in uno strumento di legittimazione. Ogni ambito della vita pubblica, dalla politica all’informazione, fino al dibattito sociale, sembra funzionare secondo la stessa dinamica: dividere per esistere, esasperare per emergere, ferire per ottenere attenzione.
Dickens, al contrario, individua il vero pericolo non nella mancanza di opinioni forti, ma nella normalizzazione della chiusura emotiva. I “cuori chiusi” a cui fa riferimento non sono il frutto di una cattiveria originaria, ma l’esito di un clima che abitua a difendersi, a sospettare, a considerare l’altro come un ostacolo o una minaccia. È in questo passaggio che l’errore diventa sistemico: quando una società smette di riconoscere l’altro come compagno di viaggio e lo relega a una categoria separata, a un’“altra razza”, lo scontro cessa di essere un incidente e si trasforma in struttura.
Nel presente questa dinamica emerge con particolare evidenza. Le crisi economiche alimentano la paura, la paura cerca un bersaglio e il linguaggio pubblico fornisce continuamente nemici simbolici. La violenza non si manifesta più soltanto in forma fisica o militare, ma diventa discorsiva, culturale, quotidiana. È una violenza che non sente il bisogno di essere giustificata, perché viene presentata come inevitabile, persino necessaria. Dickens smaschera questa illusione con una semplicità disarmante: ricordare la comune fragilità non indebolisce la società, ma la preserva dalla disgregazione morale.
Il Natale, inteso come tempo morale, si oppone radicalmente a questa logica. Non perché neghi il conflitto, ma perché rifiuta di assolutizzarlo. Introduce una sospensione dell’odio automatico, un momento in cui l’umanità sembra ricordarsi che lo scontro permanente non è una condizione naturale, ma una scelta. Pensare agli altri come “compagne di viaggio verso la tomba” non significa annullare le differenze, ma riconoscere un limite condiviso che rende ogni violenza meno legittima e ogni acredine meno giustificabile.
Il profondo errore del tempo presente consiste nel credere che la durezza renda più lucidi, che l’aggressività produca chiarezza, che la disumanizzazione rappresenti una forma di realismo. Dickens ricorda l’opposto: quando una società rinuncia alla gentilezza, al perdono e all’attenzione verso l’altro, non diventa più forte, ma solo più povera interiormente. E questa povertà, prima o poi, si traduce in violenza concreta.
Per questo quelle parole continuano a parlare ancora oggi. Non come un invito sentimentale alla bontà, ma come un monito civile. In un mondo che sollecita incessantemente lo scontro, il Natale di Charles Dickens resta uno dei pochi spazi simbolici in cui l’umanità prova a sottrarsi alla spirale dell’acredine e a ricordare che vivere insieme non è una guerra permanente, ma un viaggio condiviso che richiede responsabilità, misura e cura.
Il Natale di Dickens non è una favola, ma una tregua. L’istante in cui smettiamo di essere “nemici per abitudine” e torniamo a essere “umani per scelta”.
