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Una frase di Francis Scott Fitzgerald contro l’angoscia

Leggiamo assieme questa breve citazione di Francis Scott Fitzgerald tratta dal terzo dei suoi articoli in cui parla della caduta verso la depressione.

Tra le pagine più intense de Il crollo di Francis Scott Fitzgerald, questa citazione racchiude un momento cruciale dell’esperienza umana e artistica dello scrittore. Attraverso il racconto di una notte di angoscia, di una fuga e di un esilio volontario in un luogo squallido e anonimo, Francis Scott Fitzgerald esplora una condizione esistenziale che va ben oltre il semplice esaurimento nervoso o la crisi personale: si tratta di una riflessione profonda sulla natura del dolore, della malinconia e del senso di fallimento.

Una notte di angoscia e di disperazione preparai una valigetta e me ne andai lontano mille miglia per riflettere. Affittai una stanza a un dollaro in uno squallido paesotto dove non conoscevo nessuno e investii tutto il denaro che mi ero portato dietro in una scorta di carne in scatola, cracker e mele.

Con questo non intendo insinuare che il passaggio dalla bambagia a un relativo ascetismo avesse a che fare con chissà quale «magnifica ricerca»: io avevo solo bisogno di pace assoluta per arrivare a capire come mai avessi maturato un atteggiamento triste nei confronti della tristezza, un atteggiamento malinconico nei confronti della malinconia e un atteggiamento tragico nei confronti della tragedia: come mai avessi finito per identificarmi con l’oggetto del mio orrore o della mia compassione.

Francis Scott Fitzgerald e il suo Crollo

Il gesto di preparare una valigetta e allontanarsi “mille miglia” non è solo fisico, ma anche simbolico. È il tentativo di uscire dalla spirale della propria vita quotidiana, di prendere una distanza sufficiente per poter guardare sé stesso e la propria esperienza con occhi nuovi. La scelta di una stanza a un dollaro in un paesotto sconosciuto, senza alcun conforto, senza persone amiche, sottolinea l’intento radicale di spogliarsi di tutto ciò che potesse distrarre o consolare. Non vi è qui la ricerca di una fuga romantica o avventurosa: non si tratta di “magnifica ricerca” o di una sorta di “rinascita” poetica. È, più semplicemente, un disperato bisogno di silenzio, di immobilità, di deserto umano, per affrontare il proprio abisso interiore.

Il dettaglio pratico – vivere con carne in scatola, cracker e mele – conferisce al racconto una concretezza che rende il gesto ancora più potente. Non c’è nessuna volontà di estetizzare il dolore o di renderlo affascinante: Francis Scott Fitzgerald si mostra nudo davanti alla propria fragilità, come un uomo qualsiasi che ha bisogno di tempo e spazio per sopravvivere al proprio collasso.

La parte più drammatica di questo brano, tuttavia, non è nella descrizione della fuga, ma nella consapevolezza che Fitzgerald raggiunge: egli non solo prova tristezza, malinconia e senso tragico, ma si accorge di avere maturato un atteggiamento nei confronti di questi sentimenti, un’attitudine che non è più distacco o semplice esperienza emozionale, ma identificazione profonda. Fitzgerald si rende conto di essere diventato tutt’uno con l’oggetto del proprio dolore: non osserva più la tristezza come uno stato esterno o passeggero, ma si riconosce in essa, la abita, ne è avvolto.

Questa rivelazione è centrale non solo per la comprensione del suo crollo personale, ma anche per l’intera poetica di Francis Scott Fitzgerald. Nei suoi romanzi, da Il grande Gatsby a Tenera è la notte, si avverte continuamente la tensione tra il desiderio di bellezza, successo e felicità e la consapevolezza dolorosa della loro inevitabile perdita. Il sogno americano, che molti dei suoi personaggi inseguono, non è altro che il riflesso di questo struggimento: una rincorsa affannosa verso qualcosa che già si sa essere irraggiungibile o, peggio, destinato a crollare sotto il peso delle proprie illusioni.

Tre articoli e un unico grande tema: la depressione

Ne Il crollo, Francis Scott Fitzgerald affronta tutto questo senza più la mediazione della finzione narrativa, senza i personaggi dietro cui nascondersi. Parla di sé, della propria rovina, della perdita della salute, della fine del suo matrimonio con Zelda, della bancarotta artistica ed emotiva. In questo quadro, la scena della fuga nel paesotto squallido assume il valore di un rito di passaggio: l’uomo che ritornerà da quell’esperienza non sarà più quello di prima. Non perché avrà trovato risposte consolatorie, ma perché avrà compreso il proprio rapporto con il dolore in modo definitivo.

L’identificazione con il dolore, infatti, non è solo una condanna, ma anche una chiave di lettura del mondo. Fitzgerald, nel riconoscere di essere diventato “triste verso la tristezza”, “malinconico verso la malinconia”, “tragico verso la tragedia”, non compie solo un atto di autocommiserazione: getta uno sguardo lucido su una verità fondamentale dell’esistenza. A volte il dolore non è qualcosa che subiamo dall’esterno, ma qualcosa che interiorizziamo, che plasmiamo, che finiamo per amare nostro malgrado. Diventa parte della nostra identità.

Questo atteggiamento è estremamente moderno e anticipa molte riflessioni della letteratura del secondo Novecento. Scrittori come Sylvia Plath, David Foster Wallace o Cesare Pavese – sebbene in modi molto diversi – esploreranno anch’essi il tema dell’identificazione con il dolore come elemento strutturale della personalità e della scrittura.

La forza della confessione di Francis Scott Fitzgerald sta anche nella sua sincerità disarmante. Non cerca scuse, non si assolve, non dà la colpa al destino, alla società o agli altri. Si pone davanti al lettore con tutta la propria vulnerabilità e umanità. In questo gesto, trova una dignità profonda, che forse è la vera conquista di quel viaggio solitario: la dignità di chi ha avuto il coraggio di guardare il proprio crollo senza distogliere lo sguardo.

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