Francesco Guccini, nel suo libro Dizionario delle cose perdute, rievoca l’essenza di un passato in cui l’infanzia era sinonimo di creatività libera e semplice. L’autore ci invita a riflettere su un tempo in cui la fantasia e il gioco non erano mediati dalla tecnologia, ma dall’interazione diretta con gli altri e con l’ambiente.
“Ma anche noi, da ragazzi, giocavamo, e non smettevamo mai: senza elettricità e con niente inventavamo strumenti ludici, e ogni tanto mi prende un desiderio strano, la voglia di radunare qualche coetaneo e, in segreto, da qualche parte, rifare almeno uno dei vecchi giochi che, senza bisogno di attaccare una spina, resero felice la nostra infanzia”
Francesco Guccini e la felicità dei giochi d’infanzia
Nei ricordi di Guccini, il gioco era uno strumento per dare vita al quotidiano e trasformarlo in un’avventura. Bastava poco: una corda diventava liana, un pezzo di legno si trasformava in una spada e una strada polverosa si mutava in un campo di battaglia o in una pista da corsa. La mancanza di strumenti sofisticati non limitava, ma stimolava la fantasia. La semplicità del gioco spontaneo dimostrava che ciò che rendeva felici non era l’oggetto, ma l’immaginazione che vi si proiettava.
In questo senso, Guccini ci riporta a una dimensione di creatività pura, una qualità che sembra scarseggiare oggi, in un’epoca dominata dai giochi digitali, strutturati e preconfezionati. Mentre allora ogni partita era unica, frutto delle circostanze del momento, oggi molti giochi limitano le possibilità di invenzione personale, imponendo regole statiche e dinamiche predeterminate.
La riflessione di Guccini sottolinea un cambiamento epocale. I giochi moderni, per quanto coinvolgenti, richiedono un’interazione sempre più passiva e dipendono da una connessione continua a una fonte di energia. Console, tablet e smartphone hanno trasformato il divertimento in un’esperienza individuale e spesso sedentaria. La possibilità di collegarsi con giocatori da ogni parte del mondo non compensa, però, il valore del contatto umano diretto, della condivisione fisica di spazi e oggetti.
La nostalgia di Guccini per quei giochi “senza spine” non è solo un richiamo romantico a un passato ideale, ma un invito a riscoprire la bellezza dell’essenziale. Anche il desiderio di riunire i coetanei per ripetere quei giochi non è solo un ricordo sentimentale: è un tentativo di recuperare una dimensione di comunità e semplicità che il progresso tecnologico sembra aver reso obsoleta.
I giochi di un tempo avevano anche una funzione sociale. Essi non solo divertivano, ma insegnavano regole implicite di convivenza: si litigava, si faceva pace, si imparava a collaborare o competere. Erano un microcosmo della vita reale. Oggi, i giochi digitali offrono forme diverse di socialità, ma spesso a distanza e mediate da avatar virtuali. Questa evoluzione può portare a un indebolimento delle relazioni dirette, dove il corpo, lo sguardo e la voce assumono significati ineludibili.
Recuperare i vecchi giochi
Il desiderio di Guccini di tornare a giocare quei giochi del passato non è solo una nostalgia personale, ma una riflessione sul nostro presente. Che significato avrebbe, oggi, riscoprire quelle attività? Potrebbe trattarsi di un atto controculturale, una ribellione gentile contro un sistema che spinge verso la digitalizzazione totale della vita. Radunare amici per giocare a nascondino o al “rubabandiera” sarebbe un modo per ricordare che non tutto deve passare attraverso uno schermo, che il contatto fisico e l’interazione faccia a faccia sono ancora essenziali.
Anche le implicazioni educative di questa riflessione non vanno trascurate. Insegnare ai bambini il valore del gioco spontaneo, della fantasia e della creatività potrebbe essere una chiave per bilanciare l’influenza della tecnologia sulle giovani generazioni. Offrire spazi per il gioco non strutturato e incoraggiare attività che richiedano inventiva e movimento fisico potrebbe contribuire a uno sviluppo più equilibrato.
Le parole di Guccini sono un richiamo a una vita in cui il gioco era semplice e profondamente umano, un’esperienza in cui la felicità non dipendeva da un dispositivo elettronico, ma dalla possibilità di creare e condividere. Rievocando quei momenti, ci invita a riflettere su quanto abbiamo guadagnato e quanto abbiamo perso nel nostro rapporto con il gioco e con il mondo. Forse, in un angolo del nostro tempo, possiamo ancora ritagliarci uno spazio per riscoprire la gioia di giocare “senza spine”. Non solo per nostalgia, ma per ritrovare una dimensione autentica della nostra umanità.