In questa citazione tratta dal romanzo I beati anni del castigo, pubblicato da Adelphi, Fleur Jaeggy consegna al lettore una delle più nitide definizioni della distanza esistenziale. Lo fa con uno stile che è cifra assoluta della sua scrittura: asciutto, glaciale, quasi tagliente nella sua essenzialità. La protagonista — una ragazza in un collegio svizzero negli anni Cinquanta — descrive la vita come un fenomeno osservato da lontano, mai realmente vissuto ma intravisto, come un’ombra o un bagliore riflesso.
“Ci ritiriamo nelle nostre stanze, la vita l’abbiamo vista passare dalle finestre, dai libri, dall’alternarsi delle stagioni, dalle passeggiate. Sempre di riflesso, un riflesso che sembra raggelato sui davanzali.”
Fleur Jaeggy e la grazia della scrittura
Questa frase è una sintesi perfetta dell’intero romanzo, che si svolge in uno spazio chiuso e regolato, dove il contatto con l’esperienza è rarefatto, mediato da simboli, rituali, convenzioni e paure. L’immagine della vita “vista passare dalle finestre” è il cuore simbolico di una poetica che ha reso Fleur Jaeggy una delle voci più singolari e raffinate della letteratura contemporanea.
L’uso dell’immagine della finestra è centrale. Guardare la vita passare dalla finestra implica uno stato di ritiro, di separazione, ma anche di attenzione vigile. È il punto di vista di chi non partecipa, ma osserva. Una finestra è una soglia, un’intercapedine tra l’interno e l’esterno. La protagonista, come molte figure femminili nella letteratura moderna, è sospesa in questo limbo. Non è una reclusa nel senso stretto, ma una osservatrice che non ha accesso pieno al mondo.
Guardare la vita dalle finestre significa non possederla mai, non sperimentarla nella sua pienezza. È l’esperienza della contemplazione, ma anche della rinuncia. È una condizione psichica di distacco, forse difensiva, forse imposta. La vita è altrove, e chi guarda è imprigionato in una cornice.
“Sempre di riflesso” scrive Jaeggy, e questa espressione ha un peso filosofico notevole. L’esperienza non è diretta, ma riflessa, come l’immagine di un volto in uno specchio o sulla superficie dell’acqua. È una condizione che richiama la caverna platonica: le protagoniste del romanzo, e forse Jaeggy stessa, vivono nel mondo delle ombre, delle immagini rifratte. Conoscono la realtà non per esperienza diretta, ma attraverso le sue rappresentazioni — i libri, le stagioni, i racconti degli adulti.
Questo riflesso non è vitale, non è in movimento: è “raggelato sui davanzali”. L’uso del termine “raggelato” aggiunge una qualità statica, morta, museale all’esperienza. Ciò che viene riflesso non si muove, non evolve: è fisso, immobile. I davanzali, poi, sono il punto d’appoggio della finestra, il luogo dove il riflesso si deposita, come brina su un vetro. Lì resta, inerte. È una metafora della memoria che non scalda, ma pietrifica.
Un’educazione sentimentale al rovescio
I beati anni del castigo è il racconto di una formazione mancata. In un collegio svizzero femminile, le protagoniste — adolescenti, fredde, silenziose, introverse — non ricevono un’educazione all’emotività, ma alla repressione. Non si insegnano le passioni, ma il decoro. Non si promuove la libertà, ma il controllo. L’esperienza amorosa è suggerita, intravista, ma mai posseduta.
La protagonista si lega a una compagna, Frédérique, ma questo legame resta oscuro, non esplicitato. L’amore è suggerito, come la vita: percepito a margine, mai afferrato. In questo senso, Jaeggy non racconta solo l’infanzia o l’adolescenza, ma l’esperienza universale di un’umanità che vive dietro un vetro, protetta ma anche privata della pienezza sensoriale.
Il linguaggio di Jaeggy riflette perfettamente questo universo. Non ci sono sbavature, non c’è pathos né sentimentalismo. C’è una freddezza chirurgica, che però non esclude la commozione. La scrittura non è distante per vezzo, ma perché rispecchia la distanza emotiva dei personaggi, la difficoltà di esprimersi, la paura del contatto. È una lingua che non consola, ma illumina con crudeltà il paesaggio interiore.
Il gelo non è solo ambientale — l’ambientazione alpina lo suggerisce — ma psicologico. I sentimenti non sono assenti, ma trattenuti, raggelati anch’essi sui davanzali dell’anima. La protagonista vive in uno stato di sospensione emotiva, in una calma glaciale che è anche la condizione per sopravvivere all’asfissia dell’ambiente.
Eppure, in questa postura di distacco c’è anche una forma di privilegio. Osservare la vita “di riflesso” significa anche sviluppare una sensibilità acutissima. La protagonista, pur reclusa, è attenta, vigile, capace di cogliere sfumature che spesso sfuggono a chi vive pienamente. In questo senso, la letteratura stessa si fa riflesso: non è mai la vita diretta, ma una sua eco, un suo riverbero.
Fleur Jaeggy, con la sua scrittura rarefatta e tagliente, ci mostra che anche il riflesso più tenue può contenere una verità assoluta. E ci invita a riconoscere che, dietro le finestre chiuse delle nostre esistenze, sui davanzali delle nostre emozioni congelate, c’è comunque una vita che continua a passare — e che, sebbene vista solo di riflesso, merita di essere raccontata.