Una frase di Fleur Jaeggy sulla bellezza della musica

4 Novembre 2025

Leggiamo questa citazione della scrittrice svizzera, amica di Franco Battiato, Fleur Jaeggy, sulla disciplina e la bellezza che nascono dalla musica.

Una frase di Fleur Jaeggy sulla bellezza della musica

La citazione di Fleur Jaeggy  racchiude in poche righe la sua poetica essenziale e misteriosa, il suo rapporto con il linguaggio e con la creazione artistica, ma anche una riflessione profonda sul silenzio, sulla disciplina e sul potere liberatorio della musica.

«Una volta pensavo che fossero i tasti a suggerire le parole. Nella mia vita ci sono quelli della macchina da scrivere. E quelli del pianoforte. L’ho studiato da bambina, obbligata dalle monache: andavo a lezione ma non mi esercitavo. Suono soprattutto la sera, è come meditare. Il pensiero se ne va»

Fleur Jaeggy, scrittrice svizzera di lingua italiana, è celebre per il suo stile scarno, cristallino, quasi ascetico, dove ogni parola sembra scavata nel ghiaccio. In questa citazione, tratta da un’intervista, emerge una parte più intima del suo universo: il legame tra scrittura e musica, tra il gesto del toccare i tasti e il mistero che da quel gesto scaturisce. La scrittura e il pianoforte diventano due facce della stessa esperienza di interiorità: entrambe richiedono una precisione fisica, una presenza del corpo, ma conducono anche a un abbandono della mente, a una forma di meditazione.

I tasti che suggeriscono le parole

«Una volta pensavo che fossero i tasti a suggerire le parole»: in questa frase si concentra un’intera poetica del linguaggio. Non è la mente — non del tutto, almeno — a creare le parole, ma un contatto, un gesto meccanico, quasi rituale. I tasti diventano strumenti di mediazione fra l’autrice e la parola, fra l’interiorità e l’espressione. È come se il pensiero non nascesse dentro, ma si manifestasse attraverso la materia, attraverso il suono e il tatto.

Per Fleur Jaeggy, che da sempre concepisce la scrittura come un atto di sottrazione, di rarefazione, questa idea di una lingua suggerita dalla macchina è profondamente coerente. I tasti, nella loro regolarità metallica, sostituiscono l’impulso umano con un ritmo. C’è qualcosa di impersonale e insieme di sacrale in questa immagine: la macchina da scrivere come strumento di rivelazione, non di creazione arbitraria. Le parole non si impongono, ma emergono dal suono del metallo, come se fossero “dettate” da un altrove.

Scrittura e musica

Subito dopo, Jaeggy accosta i tasti della macchina da scrivere a quelli del pianoforte: «Nella mia vita ci sono quelli della macchina da scrivere. E quelli del pianoforte». È un parallelismo apparentemente semplice, ma denso di significato. Entrambi gli strumenti — la macchina e il pianoforte — richiedono un gesto ritmico, disciplinato, una mano che tocca e che produce. Ma mentre la scrittura genera senso, la musica genera silenzio interiore.

Nella sua esperienza, le due tastiere si rispecchiano. La macchina da scrivere organizza il caos dei pensieri, mentre il pianoforte scioglie quel caos. Scrivere è un atto di costruzione; suonare è un atto di dissoluzione. La musica, dice Jaeggy, è “come meditare”: il pensiero se ne va, si scioglie in una vibrazione che non ha più bisogno di parole.

Questo equilibrio tra concentrazione e abbandono è centrale anche nella sua scrittura. Chi legge I beati anni del castigo o Proleterka avverte una tensione continua fra controllo e vertigine, fra ordine formale e violenza emotiva. Come nel pianoforte, ogni parola è una nota precisa, ma dietro la precisione si avverte il tremito dell’abisso.

L’obbligo e la libertà

Jaeggy racconta di aver studiato pianoforte “obbligata dalle monache”, da bambina. C’è un tono ironico e insieme malinconico in questa confessione. Il pianoforte, simbolo di educazione borghese e disciplina, nasce nella sua vita come imposizione, come esercizio esteriore. Eppure, col tempo, diventa un rifugio, un luogo di libertà.

L’obbligo infantile si trasforma, nell’età adulta, in una pratica di meditazione. Non è più la musica degli altri, quella insegnata e corretta, ma la musica propria, quella che serve a lasciare andare il pensiero. È come se Jaeggy trasformasse la costrizione in rito, il dovere in grazia. Questo percorso — dall’obbedienza all’intimità — rispecchia anche la sua evoluzione di scrittrice: dall’apprendere la lingua come strumento rigido, alla scoperta del linguaggio come respiro personale, come vibrazione del sé.

Il silenzio che nasce dal suono

«Suono soprattutto la sera, è come meditare. Il pensiero se ne va.»

Questa conclusione è una delle più belle definizioni di cosa significhi creare. L’arte, per Jaeggy, non è tanto un modo per dire, quanto un modo per sparire. Scrivere o suonare significa entrare in uno stato di sospensione, dove l’io si attenua, e resta solo il gesto, il suono, la presenza.

È un’idea molto vicina alla spiritualità orientale, ma anche a certe poetiche del silenzio novecentesco — da Beckett a Blanchot — dove il linguaggio tende a cancellarsi per lasciare spazio all’essenziale. Nel momento in cui “il pensiero se ne va”, resta solo l’essere. E, paradossalmente, proprio allora nascono le parole più vere, quelle che non sono cercate ma ricevute.

Jaeggy suggerisce che l’arte autentica nasce dal silenzio: dal momento in cui il pensiero smette di dominare, e la sensibilità si apre a un ritmo più profondo. Il pianoforte, in questo senso, è il contraltare della macchina da scrivere: non uno strumento per produrre senso, ma per svuotarlo, per ritrovare un equilibrio tra mente e corpo, tra suono e assenza.

Fleur Jaeggy e l’arte della precisione

In fondo, in questa breve citazione si cela tutto il mondo di Fleur Jaeggy: la disciplina severa, l’eleganza della forma, la nostalgia per l’infanzia, la tensione tra controllo e abbandono. I tasti, siano essi di metallo o d’avorio, sono il ponte tra ordine e vertigine, tra pensiero e annullamento.

Nella musica come nella scrittura, Jaeggy cerca il punto in cui il gesto si fa puro, in cui la parola e la nota cessano di significare per diventare presenza. E in quella presenza silenziosa, dove “il pensiero se ne va”, rimane soltanto la vibrazione dell’essere, sottile e luminosa come un accordo sospeso nell’aria.

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