Questi cinque versi costituiscono la prima strofa della poesia Speranza di Czesław Miłosz, poeta polacco insignito del Premio Nobel per la Letteratura nel 1980. In pochi versi, Miłosz riesce a comporre una riflessione densissima sul rapporto tra il reale e l’illusione, tra i sensi e la verità, tra la presenza e la memoria. E, soprattutto, introduce il concetto di speranza non come fragile illusione, ma come radicamento nel concreto, nel corpo vivo del mondo.
“La speranza c’è, quando uno crede
Che non un sogno, ma corpo vivo è la terra,
E che vista, tatto e udito non mentono.
E tutte le cose che qui ho conosciuto
Son come un giardino, quando stai sulla soglia.”
Czeslaw Milosz: “ma corpo vivo è la terra”
Il primo verso – “La speranza c’è, quando uno crede” – apre la poesia in modo assertivo, ma condizionato. La speranza non è un dato oggettivo, non è qualcosa che esiste a prescindere dalla coscienza umana: è legata a un atto di fede, alla capacità di “credere”. Tuttavia, Miłosz non si riferisce a una fede cieca, trascendente o religiosa nel senso tradizionale. Il secondo verso lo chiarisce: “Che non un sogno, ma corpo vivo è la terra”. La speranza scaturisce, per il poeta, dal riconoscimento che il mondo non è un’illusione o un’ombra platonica, ma un corpo concreto, tangibile, vivo.
Questa affermazione ha un significato filosofico profondo: si oppone al disincanto moderno che tende a vedere la realtà come una costruzione mentale, o a considerare i sensi come strumenti fallaci. Miłosz, al contrario, afferma che i sensi – “vista, tatto e udito” – non mentono. La speranza, allora, nasce nel momento in cui l’essere umano si riconcilia con ciò che percepisce, quando smette di diffidare della concretezza e accoglie il reale come vero.
In questo senso, la poesia si pone in aperta polemica con un certo scetticismo postmoderno, ma anche con le fughe metafisiche che rifiutano la realtà sensibile come fonte di verità. Miłosz costruisce una poetica dell’evidenza sensoriale, del radicamento nella realtà, e lo fa in un momento storico in cui la fiducia nel mondo è stata messa a dura prova da guerre, ideologie totalitarie, distruzioni. Nato nel 1911, Miłosz ha attraversato il secolo delle catastrofi, e la sua poesia cerca spesso di rispondere alla domanda su come continuare a credere nell’umano dopo Auschwitz, dopo Hiroshima.
Il giardino sulla soglia
Il quarto e quinto verso portano la riflessione su un piano ancora più evocativo: “E tutte le cose che qui ho conosciuto / Son come un giardino, quando stai sulla soglia”. Qui la memoria entra in gioco. Le “cose che ho conosciuto” – che possiamo leggere sia come persone, eventi, oggetti concreti, sia come esperienze vissute – vengono paragonate a un giardino osservato dalla soglia.
La metafora è potente e ambivalente. Il giardino rappresenta un luogo di bellezza, ordine, vita. Ma stare sulla soglia significa essere ancora fuori, non ancora dentro. È una posizione liminale, di attesa, forse anche di timore. Si intravede ciò che è stato, lo si desidera, ma non si è più del tutto in grado di accedervi. E tuttavia, anche in questa distanza, permane la speranza: proprio perché si riesce ancora a vedere il giardino, a riconoscerlo come luogo familiare e desiderabile, c’è la possibilità di tornare a vivere.
Il giardino è anche un simbolo biblico, edenico. Non è casuale che Miłosz, che ha spesso intrecciato nelle sue opere il pensiero cristiano con quello laico e umanista, scelga questa immagine. Il giardino può essere letto come una visione del mondo originario, perduto ma non dimenticato, a cui si può ancora tendere attraverso la memoria, la poesia, l’atto di sperare.
Il corpo della terra
Quando Miłosz dice “corpo vivo è la terra”, invita a riconoscere la sacralità della materia. Non è un’affermazione banale, soprattutto se letta nel contesto della cultura moderna, spesso disincantata e smaterializzata. La terra, per Miłosz, è un corpo: ha una consistenza, una carne. È viva. E riconoscerne la vitalità significa anche accettare di far parte di essa, di essere immersi nel tempo, nella storia, nella mortalità.
Eppure è proprio in questa accettazione della realtà che nasce la speranza. Non una speranza che promette la fuga, ma una speranza incarnata, radicata nel presente, nella concretezza, nel senso che le esperienze del passato hanno lasciato. Il poeta non dice che tutto tornerà come prima, né che la felicità è garantita. Dice però che il mondo è reale, e che noi possiamo ancora sentirlo, toccarlo, vederlo.
I versi di Miłosz offrono una meditazione lucida e potente sulla condizione umana. In un’epoca segnata dalla disillusione e dall’astrazione, la poesia diventa un gesto di riconciliazione con la terra, con il corpo, con i sensi. La speranza, allora, non è una favola per bambini, né una forma di illusione. È la capacità adulta di guardare il mondo, di abitarlo pienamente, anche quando si è solo sulla soglia.
E in quella soglia – in quello spazio sospeso tra ciò che è stato e ciò che può ancora essere – nasce la poesia. E con essa, la possibilità di una speranza che non inganna, perché affonda le sue radici nel corpo vivo della terra.