Una frase di Bruno Lauzi spesso attribuita a Luigi Tenco

7 Agosto 2025

Leggiamo la schietta risposta che il cantautore Bruno Lauzi ha dato a un giornalista qualche anno fa. Oggi è spesso, ad errore, attribuita a Tenco.

Una frase di Bruno Lauzi spesso attribuita a Luigi Tenco

La frase di Bruno Lauzi è una delle più sincere battute che siano mai state pronunciate sul processo creativo. Spesso erroneamente attribuita a Luigi Tenco, in realtà è di Lauzi, raffinato cantautore, poeta e paroliere italiano. È una risposta fulminante a una domanda semplice, eppure carica di implicazioni: perché gli artisti – e in particolare i cantautori – sembrano prediligere la malinconia, il dolore, il disincanto nei loro testi?

«Perché scrivi solo cose tristi? – Perché quando sono felice, esco»

L’ironia della risposta cela una verità profonda: la creazione artistica, per molti, nasce da un’esigenza interiore, da uno squilibrio che chiede di essere colmato, da un’emozione che ha bisogno di trovare forma, parola, espressione. La felicità, al contrario, è uno stato che si vive nel presente e che difficilmente stimola un’urgenza di comunicazione: è compiuta, autosufficiente, non reclama spiegazioni.

Bruno Lauzi e la vita oltre l’arte

Bruno Lauzi non è stato solo un cantautore dalla penna elegante e ironica, ma anche un profondo osservatore dei sentimenti umani. In questa frase si coglie tutta la consapevolezza del rapporto tra l’artista e la propria interiorità. Quando si è felici, si vive. Quando si è tristi, si scrive. Questa opposizione non va letta in modo assoluto, ma ci indica una tendenza comune nella storia dell’arte e della letteratura: la sofferenza stimola l’introspezione, l’analisi, l’urgenza espressiva.

Scrivere, per molti, è un atto terapeutico, un modo per elaborare il dolore, trasformarlo, dargli senso. Quando ci si sente smarriti o turbati, si cerca un appiglio, e l’arte può diventarlo. La scrittura diventa una forma di resistenza, un modo per non lasciarsi travolgere dal vuoto. La felicità, al contrario, è spesso associata all’estroversione, alla socialità, alla vita vissuta nel mondo, non nel rifugio della scrittura.

Una risposta che svela il paradosso creativo

La frase di Bruno Lauzi tocca anche un paradosso: l’artista è spesso celebrato per la sua capacità di raccontare l’amore, la nostalgia, la perdita – tutti stati emotivi associati a esperienze negative – ma al tempo stesso viene interrogato, quasi rimproverato, per la tristezza che permea la sua opera. È come se ci si aspettasse che l’arte debba consolare, elevare, far sorridere, e invece spesso fa l’opposto: ci mette a contatto con le parti più oscure e fragili della nostra esistenza.

L’ironia della battuta serve anche a difendere una scelta artistica precisa: quella di non edulcorare la realtà. Bruno Lauzi, come molti cantautori della sua generazione, ha scelto di raccontare la vita così com’è, senza maschere. I suoi testi, pur attraversati da una leggerezza stilistica, spesso celano disincanto, malinconia, disillusione. E in questo senso, la tristezza non è un limite, ma uno strumento conoscitivo, una lente attraverso cui guardare la realtà con maggiore profondità.

Il tempo della felicità è un tempo pieno

C’è poi un’altra dimensione da considerare: la felicità non lascia tempo per la scrittura. Quando si è felici, ci si sente completi, si è immersi nel presente, si ha meno bisogno di rielaborare ciò che si prova. La tristezza, al contrario, ci costringe alla riflessione, ci spinge a interrogarci, a guardare indietro o avanti. È un’emozione narrativa, potremmo dire: ha una storia da raccontare, ha bisogno di parole.

L’immagine di Bruno Lauzi che, da felice, esce di casa, va nel mondo, vive – mentre quando è triste resta e scrive – è estremamente potente. Ribalta l’idea romantica dell’artista sempre ispirato, sempre immerso nella propria arte. Qui, l’arte è una conseguenza, non una vocazione astratta. Si scrive quando si ha qualcosa da dire, e spesso ciò che si ha da dire nasce da un’assenza, non da una pienezza.

Un modo per rivendicare libertà espressiva

La frase, inoltre, è una dichiarazione di libertà. Bruno Lauzi, con la sua intelligenza ironica, sembra voler dire: “Scrivo ciò che sento, non ciò che ci si aspetta da me”. È un’affermazione d’autonomia, un rifiuto di aderire a un modello rassicurante e consolatorio. La musica – e più in generale la scrittura – non è una fabbrica di felicità, ma un laboratorio emotivo in cui si esplorano tutte le sfumature dell’animo umano.

Questa affermazione, dunque, è tanto più significativa oggi, in un tempo in cui si chiede spesso all’arte di “fare stare bene”, di essere terapeutica o motivazionale. Lauzi ci ricorda che l’arte non deve necessariamente consolare: deve essere vera. E spesso la verità, per quanto scomoda, è triste.

«Perché scrivi solo cose tristi? – Perché quando sono felice, esco». In questa battuta si racchiude un’intera poetica. È una risposta arguta, ma anche una riflessione sulla funzione dell’arte e sul tempo in cui essa nasce. È un invito a non temere la tristezza, ma ad accoglierla come parte integrante dell’espressione umana. Scrivere – ci insegna Bruno Lauzi – non è un gesto neutro: è un atto di coraggio, un modo per rendere visibili le emozioni che altrimenti ci resterebbero dentro, mute. E se a volte i testi sono tristi, è perché la scrittura è anche – e soprattutto – un modo per non sentirsi soli.

© Riproduzione Riservata