La figura del mugnaio che compare in Il partigiano Johnny è uno dei ritratti significativi che possiamo trovare all’interno del romanzo di Beppe Fenoglio. In poche frasi, attraverso una confessione schietta e priva di artifici, egli concentra un’intera filosofia dell’apprendimento, della dignità individuale e della lotta contro la condizione di ignoranza ereditata dalla nascita. Le sue parole non sono solo una descrizione biografica: sono un manifesto umano, un atto di resistenza culturale che si pone in perfetta sintonia con l’orizzonte etico di Beppe Fenoglio.
Io sono ignorante, d’accordo, – cominciò il mugnaio, – e perché abbiamo un po’ di tempo cercherò di spiegarti perché e quanto sono ignorante. Io nacqui nell’ignoranza e ci restai allevato fino a bambino. Ma da ragazzo non ci volli rimanere, come ci restano invece tutti quelli nati e vissuti su queste alte colline, ma ci lottai contro, mi rivoltai e ci lottai contro e ancora ci lotto.
Mi basti dirti che pur occupato in questo mestieraccio e vivendo in questi posti selvaggi, io non ho mai mancato di leggermi tutti i giorni il giornale, naturalmente fin quando la corriera ha funzionato e il servìzio postale. Ogni volta rileggevo tre volte lo stesso foglio, per incavare idee sugli uomini e sui fatti e sul mondo.
Beppe Fenoglio e il valore della cultura
L’incipit della citazione – “Io sono ignorante, d’accordo, e perché abbiamo un po’ di tempo cercherò di spiegarti perché e quanto sono ignorante” – è già emblematico. L’uomo non nasconde la propria condizione, non la nega, non la addolcisce. Ma nello stesso momento in cui la riconosce, la problematizza. L’ignoranza non è un fatto naturale, non è un destino immutabile: è una condizione da cui si può tentare di uscire. La confessione assume così i toni di una consapevolezza dolorosa e orgogliosa al tempo stesso.
Il mugnaio racconta di essere nato nell’ignoranza, come molti abitanti delle “alte colline”, un mondo rurale isolato, difficile, privo di stimoli scolastici o culturali. Ma a differenza di molti altri, dice, da ragazzo “non ci volli rimanere”.
Questa frase è il cuore pulsante della sua testimonianza. In essa si coglie la distinzione fondamentale tra chi accetta passivamente la propria condizione e chi invece tenta, con le poche risorse a disposizione, di superarla. Il mugnaio è un autodidatta, un uomo che non ha accesso agli strumenti dell’istruzione formale, ma che elabora da sé un percorso di crescita. E lo fa con determinazione, con un’energia quasi eroica che richiama la stessa logica della lotta partigiana: resistere non solo all’oppressore politico, ma anche all’oppressione culturale, al limite imposto dalla povertà, dalla geografia, dalle circostanze.
Il riferimento al mestiere – “questo mestieraccio” – e ai “posti selvaggi” in cui vive introduce una forte dimensione ambientale. Il mugnaio è un uomo immerso in una natura dura, ruvida, che rende difficile qualunque forma di apertura mentale. Eppure, proprio in questo contesto, matura un desiderio quasi feroce di conoscere il mondo al di fuori della sua valle. È in questo che risiede la grandezza del personaggio di Beppe Fenoglio: nella capacità di non lasciarsi determinare totalmente dall’ambiente, ma di coltivare una ribellione intellettuale, piccola e quotidiana, che lo rende moralmente grande.
Il gesto cardinale di questa ribellione è la lettura del giornale. Beppe Fenoglio insiste su questo dettaglio con una precisione quasi documentaria: “Io non ho mai mancato di leggermi tutti i giorni il giornale… Ogni volta rileggevo tre volte lo stesso foglio, per incavare idee sugli uomini e sui fatti e sul mondo”. Il verbo “incavare” è straordinario, tipico della lingua di Beppe Fenoglio, una parola che comunica uno sforzo fisico, come scavare nella terra, ma applicato al pensiero. Il mugnaio non legge semplicemente: estrae idee, le tira fuori a forza, come se ogni frase fosse un minerale prezioso sepolto nella carta stampata.
Il giornale diventa così il suo ponte con il mondo, l’unico strumento di una formazione personale che si costruisce lentamente, con fatica, attraverso un atto di volontà quotidiana. La lettura, ripetuta tre volte, non è un vezzo né un’abitudine pigra: è un esercizio, un allenamento dell’occhio e della mente. Attraverso quelle cronache, quelle rubriche, quelle notizie lontane, egli costruisce un’immagine dell’umanità, dei processi storici, dei conflitti globali. Si tratta di una conoscenza rudimentale, certo, ma profondamente autentica. Un sapere conquistato, non ricevuto.
In questo passaggio il mugnaio diventa una sorta di specchio per Johnny, il protagonista, che proviene da un mondo culturale più ampio e sofisticato, ma che nella lotta partigiana scopre la necessità di ripensare i canoni del sapere. Johnny vede nel mugnaio una saggezza diversa, non libresca, ma altrettanto preziosa: una saggezza nata dalla fame di conoscenza, dalla resistenza alla marginalità, da un “combattere” che non è meno serio del combattimento reale contro il fascismo.
L’estetica di Beppe Fenoglio
La scena diventa così una miniatura esemplare dell’estetica di Beppe Fenoglio: la letteratura incontra la vita concreta, il sapere libresco si contamina con quello empirico, la dignità morale si radica nei gesti più semplici. Fenoglio sembra suggerire che la cultura non è una dotazione iniziale, ma un percorso, un atto di volontà. E che anche il più umile tra gli uomini può elevarsi se non rinuncia a interrogarsi sul mondo.
Nel mugnaio si incarna l’idea della Resistenza come fenomeno etico totale: non solo politico o militare, ma culturale, intellettuale, umano. La sua lotta contro l’ignoranza è una forma di riscatto, un esercizio di libertà in un luogo che sembrerebbe negarla. Ed è proprio questa tensione – umile, quotidiana, eroica – che rende questo personaggio una delle figure più indimenticabili del romanzo.