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I versi di Anna Achmatova sul valore della solitudine

Leggiamo questi versi, forse oggi in controtendenza rispetto all'opinione generale, in cui Anna Achmatova inneggia alla dolce e sperata solitudine.

Nei versi tratti dalla poesia “Solitudine” di Anna Achmatova, una delle più alte voci della poesia russa del Novecento, si coglie un’intensa e complessa riflessione sull’isolamento come esperienza interiore e spirituale. I versi si prestano a molteplici interpretazioni: essi celebrano la solitudine come scelta, come rifugio e come spazio in cui l’anima si purifica, rifiutando le lusinghe del mondo esterno.

“Oh sacra mia solitudine – tu! E i giorni
sono spaziosi, luminosi e puri
come un giardino mattutino al
risveglio. Solitudine! Non credere
alle chiamate lontane e
aggràppati alla porta d’oro”

Una solitudine sacra nei versi di Anna Achmetova

L’apertura, “Oh sacra mia solitudine – tu!”, stabilisce subito un tono di venerazione. Achmatova non teme la solitudine, non la evita, non la considera una condizione negativa da cui fuggire. Al contrario, la definisce “sacra”, e l’apostrofa con un “tu” che la personifica, quasi si trattasse di una divinità domestica o di un compagno invisibile. La poetessa riconosce nel ritiro dal mondo una fonte di grazia e di chiarezza, qualcosa di tanto prezioso da essere custodito come un sacramento. In tempi di caos politico, tragedia personale e collettiva — basti pensare al periodo in cui Achmatova scriveva, segnato dalla Rivoluzione Russa, dalle purghe staliniane e dalla guerra — la solitudine diventa rifugio, sì, ma anche baluardo della coscienza.

La seconda immagine che emerge è quella della trasformazione del quotidiano. I giorni, grazie alla solitudine, diventano “spaziosi, luminosi e puri / come un giardino mattutino al risveglio”. È una descrizione quasi edenica: uno spazio rigenerato, incontaminato, dove il tempo sembra essersi fermato e l’anima può respirare. Lontana dal frastuono del mondo, dalla retorica pubblica, dalla violenza della storia, la poetessa può finalmente sentire se stessa, e vedere il mondo come nuovo. È una visione quasi metafisica del tempo: la solitudine dona una dimensione qualitativa ai giorni, li rende ampi, sereni, chiari.

Questa luce non è quella del giorno affollato e affannato delle piazze, ma la luce del mattino, della rinascita, della contemplazione. Il paragone con un giardino mattutino è fortemente simbolico: il giardino, in molte culture e religioni, è immagine dell’anima, luogo di armonia, di cura, di ordine naturale. Nel giardino mattutino non c’è ancora disordine, non c’è ancora affanno: è il momento in cui tutto è possibile, in cui la bellezza si mostra senza mediazioni.

Ma subito dopo questa visione idilliaca, Achmatova lancia un monito alla sua solitudine: “Non credere / alle chiamate lontane”. Qui si inserisce un elemento drammatico e profondamente umano: il mondo bussa alla porta. Le “chiamate lontane” potrebbero essere inviti alla socialità, alla politica, all’amore, al dovere, alla partecipazione alla vita pubblica. Ma la poetessa li respinge. Non per snobismo o per disinteresse verso gli altri, ma perché conosce la forza illusoria di quelle voci. Non bisogna credere a quelle chiamate, sembra dirci, perché esse distraggono, sviano, ci portano lontano da ciò che siamo veramente.

In un’epoca dominata dalla comunicazione continua e dall’esposizione incessante di sé, questo ammonimento assume una forza profetica. Anna Achmatova ci invita alla fedeltà a noi stessi, a non cedere alla seduzione del mondo che ci reclama e ci vuole sempre presenti, produttivi, reattivi. La solitudine, per lei, è non solo una scelta spirituale, ma anche una forma di resistenza morale.

Aggrapparsi alla “porta d’oro”

L’ultimo verso, “aggràppati alla porta d’oro”, è il più enigmatico e insieme il più suggestivo. Cosa rappresenta questa porta? Potrebbe essere una soglia tra il mondo visibile e quello interiore, oppure il confine tra la solitudine e il rumore esterno. Il fatto che sia “d’oro” indica valore, sacralità, splendore. Non è una porta qualsiasi, ma un accesso prezioso, quasi celestiale, a uno spazio che vale la pena difendere. “Aggrapparsi” a questa porta significa restare saldi, non cedere, anche quando le forze del mondo cercano di strapparci via dalla nostra integrità interiore.

Forse, in termini più simbolici, la porta d’oro è la poesia stessa. È nella poesia che Achmatova ha trovato rifugio, verità, purezza. È la poesia che le ha permesso di abitare la solitudine non come condanna, ma come vocazione e destino.

La poesia di Anna Achmatova ci consegna una visione controcorrente della solitudine. In un mondo che la teme o la stigmatizza, lei la celebra come sacra, luminosa, necessaria. I suoi versi ci ricordano che la solitudine, lungi dall’essere una carenza o una maledizione, può diventare il luogo dell’anima, lo spazio dove si ricostruisce una verità profonda, un’esistenza non contaminata dalle menzogne del mondo.

In un tempo in cui siamo sempre “connessi”, riscoprire la lezione di Achmatova significa fare un passo indietro per rientrare in noi stessi, nel silenzio e nella luce mattutina del nostro giardino interiore. Dove ogni giorno, nonostante tutto, può ancora rinascere.

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