Alberto Moravia, amico e collega di Pier Paolo Pasolini, ha scritto i versi sopra riportati, contenuti nella lunga poesia Ricordi dell’idroscalo, come un drammatico e intenso omaggio alla memoria dello scrittore, poeta e regista, brutalmente assassinato nella notte tra il 1° e il 2 novembre 1975 all’Idroscalo di Ostia. Questi versi, dal tono asciutto e incalzante, si configurano come una confessione immaginaria del suo assassino, un modo per riflettere sulla violenza cieca e sull’annientamento di una delle menti più brillanti del Novecento italiano.
Ahimè ho ucciso un grand’uomo
col primo colpo ho distrutto il ganglio
che gli faceva scrivere le poesie
ahimè ho ucciso un grand’uomo
mai più poesia dopo il primo colpo
mai più poesiaAhimè ho ucciso un grand’uomo
col secondo colpo ho distrutto il ganglio
che gli faceva scrivere i romanzi
ahimè ho ucciso un grand’uomo
mai più romanzi dopo il secondo colpo
mai più romanziAhimè ho ucciso un grand’uomo
col terzo colpo ho distrutto il ganglio
che gli faceva fare i film
ahimè ho ucciso un grand’uomo
mai più film dopo il terzo colpo
mai più filmAdesso Pasolini non era più Pasolini
dopo il terzo colpo
era me e allora ho capito
che
Pasolini doveva morireperché era me e mio
padre e tutti i padri
d’Italia
mi avevano condannato
a morire come
un cane arrabbiato
I versi di Alberto Moravia; Pasolini immortale; l’assassino vittima di sé stesso
Il testo si articola in una serie di ripetizioni che scandiscono il momento della morte: ogni colpo inferto al corpo di Pasolini distrugge progressivamente una parte della sua produzione intellettuale. Il primo colpo pone fine alla poesia, il secondo ai romanzi, il terzo ai film. È come se l’assassino non stesse uccidendo solo un uomo, ma un’intera eredità culturale, un pensiero scomodo che disturbava e metteva in discussione il potere e la società. Questa ripetizione enfatizza la tragicità della perdita e sottolinea l’impatto devastante della sua scomparsa.
Ma Moravia va oltre la mera descrizione dell’omicidio: nel finale emerge una riflessione sulla colpa collettiva. L’assassino, che inizialmente si percepisce come un individuo isolato, si rende conto di essere il prodotto di una società che ha condannato Pasolini a morte. Il poeta, scrittore e cineasta non è stato solo ucciso fisicamente, ma è stato anche emarginato, odiato, incompreso da un’Italia incapace di accettarne la diversità e la radicalità del pensiero.
L’assassino, nella rappresentazione poetica di Moravia, non è più solo una persona, ma un simbolo. È il giovane disadattato, il figlio della repressione, colui che è stato modellato da una società violenta e autoritaria. Quando dichiara che “Pasolini era me e mio padre e tutti i padri d’Italia”, si fa portavoce di un disagio più ampio, quello di una generazione cresciuta in un clima di oppressione e di assenza di punti di riferimento autentici.
L’Italia degli anni Settanta era un paese segnato da profonde tensioni politiche e sociali. Pasolini stesso aveva più volte denunciato l’omologazione culturale, la perdita dei valori tradizionali e l’ascesa di un nuovo potere mediatico che anestetizzava le coscienze. La sua voce era fastidiosa per molti, tanto che la sua morte non fu solo un atto di violenza fisica, ma il compimento di un’ostilità maturata nel tempo.
Il paradosso della sopravvivenza
Nel finale della poesia, l’assassino comprende il significato più profondo del suo gesto: ha ucciso Pasolini, ma così facendo ha interiorizzato la sua presenza. Questa rivelazione assume una valenza amara e paradossale. Pasolini non può più scrivere né fare film, ma la sua figura diventa ancora più ingombrante, quasi impossibile da cancellare.
È un tema caro a Moravia, quello della responsabilità e della colpa. L’assassino di Pasolini, nell’immaginario della poesia, è al tempo stesso vittima e carnefice, figlio di un sistema che lo ha spinto ad agire in quel modo. Il suo gesto non è solo un omicidio, ma un’esecuzione simbolica, il compimento di una condanna che Pasolini aveva in qualche modo previsto, consapevole di essere un corpo estraneo in un mondo che non voleva ascoltarlo.
La morte di Pasolini, come suggerisce la poesia, avrebbe potuto mettere fine alla sua produzione artistica e intellettuale. Eppure, il contrario è avvenuto: la sua opera continua a vivere e a interrogare il presente. Il suo pensiero sulla società dei consumi, sulla perdita delle identità culturali, sul rapporto tra potere e informazione è ancora oggi attualissimo.
Moravia, con questi versi, riesce a trasformare la tragedia in un atto di denuncia e riflessione. La sua scrittura asciutta e tagliente non concede spazio alla retorica, ma si fa portavoce di un dolore e di un’amarezza che vanno oltre la semplice commemorazione. È un invito a non dimenticare, a riflettere sulle responsabilità di una società che, spesso, preferisce eliminare le voci scomode piuttosto che ascoltarle.
I versi di Moravia su Pasolini non sono solo un omaggio, ma una potente denuncia contro l’ipocrisia e la violenza della società italiana dell’epoca. L’assassinio di Pasolini viene raccontato come un atto di annientamento culturale e intellettuale, ma anche come un episodio rivelatore della natura repressiva del sistema. Alla fine, l’assassino non è che un ingranaggio di un meccanismo più grande, un’espressione dell’intolleranza di un’epoca che non ha saputo accettare il genio di Pasolini.
La sua morte, tuttavia, non ha spento la sua voce. Oggi, più che mai, il pensiero di Pasolini continua a interrogare il presente, a sfidare le coscienze, a ricordarci che la cultura e la libertà di espressione sono valori da difendere a ogni costo.