I versi di Ada Negri tratti dalla poesia Portami via! evocano un desiderio profondo di fuga, di ascesa verso un altrove ideale dove la sofferenza della vita possa trovare tregua e trasfigurazione. Il brano poetico si apre con un’invocazione intensa, quasi un grido:
«Oh, portami lassù, lassù fra i monti» — e sin dal primo verso si delinea un’urgenza, un’ansia salvifica. La ripetizione di “lassù” amplifica l’intensità dell’anelito a sollevarsi, a staccarsi dalla terra, a risalire verso un luogo lontano sia nello spazio fisico sia nella dimensione simbolica.
Oh, portami lassù, lassù fra i monti,
ove lampeggia e indura il gel perenne,
ove, fendendo i ceruli orizzonti,
l’aquila spiega le sonanti penne;ove il suol non è fango; ove del mondo
più non mi giunga l’odïata voce;
ov’io risenta men gravoso il pondo
di questa che mi curva arida croce.
Ada Negri, una voce importante della poesia italiana contemporanea
Ada Negri (1870-1945), poetessa lombarda dalla vita segnata da un fortissimo senso etico, da una sensibilità politica e da una biografia aspra, diede voce nella sua opera alle tensioni interiori del soggetto femminile e al travaglio esistenziale della modernità. In Portami via! — e in particolare nella quartina qui analizzata — la poetessa affida al paesaggio montano la funzione di rifugio e sublimazione, come se l’ambiente naturale potesse offrire un riscatto alla miseria e alla volgarità della vita quotidiana.
Il desiderio di elevazione
Il paesaggio verso cui tende l’io lirico è quello dell’alta montagna:
«ove lampeggia e indura il gel perenne».
Questa immagine non è solo geografica, ma profondamente simbolica. Il “gel perenne” non è soltanto la neve o il ghiaccio che si conserva sui picchi montani: è il luogo del distacco dalle passioni effimere, dal fango della pianura, dalle miserie umane. In questa verticalità si disegna la tensione verso una purezza superiore, verso un assoluto che trascende l’orizzontalità della vita quotidiana.
L’aggettivo “indura” è interessante: il gelo non solo brilla (“lampeggia”), ma indurisce, rende stabile, solido. Questo congelamento della materia può essere letto come desiderio di stabilità interiore, di silenzio, di pace. È un’immobilità che salva, che preserva dalla corruzione del mondo.
L’aquila e la libertà
Il terzo verso introduce un’altra immagine potente:
«ove, fendendo i ceruli orizzonti, / l’aquila spiega le sonanti penne».
L’aquila è animale-simbolo per eccellenza di libertà, potenza, dominio e maestà. Fende l’aria, attraversa i cieli, è padrona dell’altitudine. Se il soggetto della poesia si sente prigioniero della propria condizione, l’aquila rappresenta il contrario: è l’essere che nulla trattiene, che sfugge alla gravità. Le “sonanti penne” suggeriscono il suono prodotto dal battito d’ali, ma anche un senso di potenza viva, di forza che risuona nel cielo. In questa immagine c’è anche un’eco biblica e romantica: l’elevazione spirituale che si ottiene attraverso la solitudine e il distacco.
Il disgusto per il mondo
Il contrasto si fa evidente nel verso successivo:
«ove il suol non è fango».
Qui il “suolo” diventa metafora del mondo terreno, della quotidianità corrotta, della vita vissuta a bassa quota. Il “fango” non è solo materia: è la materia abbassata, decomposta, mescolata con l’acqua, associata all’umiliazione, al compromesso, al dolore. La poetessa sogna un luogo dove non si debba più camminare nel fango, ovvero un luogo spiritualmente superiore dove l’anima possa non sporcarsi più.
Segue l’espressione più amara:
«ove del mondo / più non mi giunga l’odïata voce».
L’odio qui non è verso le persone specifiche, ma verso il rumore del mondo, la sua prepotente presenza. La “voce” rappresenta l’invadenza del sociale, della parola imposta, della convenzione. È un rigetto della civiltà, della comunicazione come imposizione, come rumore che sovrasta la soggettività.
Il peso dell’esistenza
La chiusa dei versi è di grande intensità tragica:
«ov’io risenta men gravoso il pondo / di questa che mi curva arida croce.»
Il peso della vita è espresso con il lessico della sofferenza cristiana: la “croce” è il dolore personale, la prova che ciascuno deve sopportare. Ma qui essa è “arida”, priva di redenzione, priva di senso salvifico. È solo fatica, piegamento, oppressione. L’auspicio è che nella solitudine alta delle montagne, anche questa croce possa apparire più leggera, meno insopportabile.
Il “pondo” (forma antica per “peso”) richiama un tono solenne, quasi classico, che innalza l’intera lirica su un piano quasi liturgico, come se il dolore fosse un atto sacro e, al tempo stesso, condanna terrena.
I versi di Ada Negri testimoniano una poetica della resistenza interiore e del desiderio di assoluto. L’aspirazione al silenzio dei monti, alla purezza del gelo, alla solitudine dell’aquila non sono semplici fughe romantiche, ma atti di opposizione alla volgarità del vivere quotidiano, alla fatica del ruolo sociale, alla condizione femminile mortificata.
Ada Negri scrive da un punto di vista non solo personale ma esistenziale e universale. La sua richiesta “portami via” è un grido che parla a chiunque si senta oppresso dal peso del mondo e cerchi, nella natura e nella verticalità, un’alternativa all’immanenza.
In un tempo in cui spesso si idealizza il rumore, l’attivismo e la visibilità, questa poesia ci ricorda la forza del silenzio, della solitudine, dell’ascesa interiore. Non come fuga, ma come atto di dignità.