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Massimo Sordi, ”Grazie alla fotografia ho trasformato la mia passione in professione”

Una lezione all'Università e l’incontro con Paolo Gioli, una scatola stenopeica improvvisata a casa, alcuni tentativi a vuoto e poi...la magia! Così è nata la passione di Massimo Sordi per la fotografia, una passione talmente grande che col tempo è diventata una professione...
Massimo Sordi ci svela l’entusiasmo dei suoi primi scatti e ci parla di fotografia attraverso i suoi ultimi progetti di cui ci offre delle immagini inedite

MILANO – Una lezione all’Università e l’incontro con Paolo Gioli, una scatola stenopeica improvvisata a casa, alcuni tentativi a vuoto e poi…la magia! Così è nata la passione di Massimo Sordi per la fotografia, una passione talmente grande che col tempo è diventata una professione. Autore di due libri – “Indian photographs” e “Nothing to see in India” – che testimoniano il suo grande amore per l’India, professore alla Facoltà di Architettura “Aldo Rossi” dell’Università di Bologna e curatore di Si Fest – Savignano Immagini Festival, Sordi ci offre un’intervista densa e ci concede alcuni scatti inediti del suo ultimo lavoro.

Come è nata la sua passione per la fotografia e in che modo è diventata una professione?
All’inizio degli anni Novanta frequentavo ancora lo IUAV, ad una lezione di Storia e Tecnica della Fotografia il prof. Italo Zannier aveva invitato Paolo Gioli a presentare i suoi lavori e a parlare “apertamente” di fotografia. Ecco, sentire le digressioni fotografiche di Gioli e soprattutto vedere la sua mostra allora allestita al Museo Fortuny è stata una vera e propria folgorazione. Tornato a casa, ho subito costruito una piccola scatola stenopeica, con la quale ho fotografato il garage di casa. Dopo un paio di tentativi a vuoto ho visto l’immagine rovesciata nascere dentro la vasca dello sviluppo. Una magia! Da allora ho cominciato ad approfondire la tecnica e la teoria che sta alla base della fotografia (stenopeica), portando questi studi fino alla mia tesi di laurea. La fortuna poi di entrare in contatto con il mondo universitario ed in particolare con l’Università di Bologna/Facoltà di Architettura “Aldo Rossi” dove insegno da più di dieci anni, con il Sifest/Festival di fotografia di Savignano che ho curato insieme a Stefania Rössl, e le mie parallele ricerche di fotografo, ecco tutto questo mi ha permesso di fare della fotografia una sorta di ricerca quotidiana che possiamo anche chiamare, per intenderci meglio, “professione”.

Quale è la sua personale concezione del fare fotografia?
Mi piace molto guardare il mondo e le persone. Penso che prima di tutto un fotografo debba nutrire una sana curiosità verso le “cose”. Interrogarle, farle parlare. Porsi di fronte ad esse con grande umiltà e con la dovuta distanza. Attendere, saper aspettare. Fotografare per me rappresenta forse il modo migliore per relazionarmi con l’esterno ponendomi, senza dare troppa enfasi allo sguardo centrico dell’uomo post rinascimentale, alla giusta distanza dai miei soggetti. Questo sono io, quello è l’altro: troviamo il giusto modo per relazionarci.

Recentemente è stato protagonista del festival trevigiano “F4_Un’idea di fotografia”. Il tema di questa edizione è stato il paesaggio identitario e culturale e lei l’ha soddisfatto proponendo una serie di scatti sull’India, paese che ha prediletto nei lavori “Indian photographs”e “Nothing to see in India”. Come sono nati questi suoi progetti? In che modo ha voluto ritrarre l’India?
In questo scambio di relazioni non sono io che ho voluto ritrarre l’India ma è stata l’India che mi ha chiesto di ritrarla in questo modo. Nel mio eterno vagabondare in India – sono ormai dieci anni che la frequento – ad un certo punto ho deciso di mettere ordine alle migliaia di fotografie che ho scattato. Sono così nati il libro “Indian photographs” (2002-2010), dove i tre diversi capitoli “karman”, “samsara” e “moksha” cercano di raccontare come gli indiani vivono questo loro appartenere religiosamente al mondo, il progetto “Nothing to see in India”(2011) nel quale rimuovo tutti gli stereotipi che portano i turisti a visitare l’India, e diversi lavori in progress tra i quali “Dreaming Bollywood” sui cinema dell’India e “Rooms” sulle stanze d’albergo. Nel corso dell’ultimo viaggio nel 2011/2012 ho fatto una prima serie di scatti nello stato del Gujarat lungo la fascia Delhi-Mumbai interna al progetto DMIC (Delhi Mumbai Industrial Corridor), un progetto ambizioso con capitali indo-giapponesi che sconvolgerà luoghi e dinamiche commerciali ed industriali non solo lungo questa fascia ma dell’India intera.

Quest’anno è stato curatore della 21° edizione del SI Fest, Savignano Immagini Festival. Da addetto ai lavori come crede che si inserisca oggi il fare fotografia all’interno della realtà italiana? Quale spazio, quali opportunità sussistono per i giovani emergenti?  
Come curatore del Sifest cerco, assieme a Stefania Rössl, di porre molta attenzione ai giovani. Non sono molte per loro le opportunità di venire in contatto con una fotografia che definirei di ricerca, che possa offrire stimoli e confronti oggi più che mai necessari. Pensiamo quindi al Sifest come una sorta di “luogo delle esperienze”, un “laboratorio” aperto al confronto con autori, archivi, collezioni fotografiche, progetti sul territorio intesi come materiali in divenire. Al Sifest i giovani vengono per vedere le mostre, seguire le conferenze e le tavole rotonde, per mostrare i loro portfolio o i libri autoprodotti e per cercare di vincere i prestigiosi premi messi in palio dal Sifest come il premio Pesaresi, il premio portfolio, il premio “open your book”, il premio MiCamera, etc. Moltissime sono oggi le occasioni di vedere, leggere, imparare fotografia, soprattutto attraverso la rete, ma il Sifest diventa il luogo primo dove poter conoscere la” vera” Natura della fotografia, che è semplicemente appesa alle pareti delle decine di mostre che ogni anno vengono proposte al SIFest.

Al SI Fest si è voluto ritornare alla Fotografia come disciplina e arte, con il tema ‘Learning from Photography / Imparando dalla Fotografia’. Quale insegnamento ci offre la fotografia?
La fotografia ci ha sin da subito insegnato a guardare il mondo. Se fossimo in un periodo storico nel quale la fotografia fosse assente, il nostro modo di guardare il mondo sarebbe diverso, “ogni cultura produce anche occhi attraverso cui guardare” diceva un noto storico dell’arte. Lazlo Moholy-Nagy affermava già nel 1925 che “la conoscenza della fotografia è altrettanto importante quanto quella dell’alfabeto. Gli analfabeti di domani saranno ignoranti nell’uso della macchina fotografica, come lo sono oggi nell’uso della penna”. Ecco, essendo una disciplina con un proprio linguaggio e con una propria sintassi grammaticale, la fotografia va studiata quasi come una lingua straniera. Purtroppo a molti giovani questo non è stato insegnato, e quindi per loro la fotografia è un’arte legata più al mezzo che alla visione. Il noto fotografo americano Robert Adams ci dice che è suo interesse “far intravvedere il potere dei nostri occhi, non le potenzialità di un’apparecchiatura fotografica”. Il tema che abbiamo scelto per quest’anno cerca appunto di aiutare il giovane ad avvicinarsi alla fotografia intesa anche come disciplina. Le mostre proposte per il Sifest 2012, penso soprattutto ad Ando Gilardi, Hans-Christian Schink, Gerry Johansson, ma anche il progetto Sin_tesis, le mostre dedicate alle scuole ISIA di Urbino e Academy of Dramatic Art di Zagabria, si collocano proprio come sezioni di approfondimento della disciplina. Come non dimentica mai di sottolineare Italo Zannier, “la fotografia è la fotografia”, quasi a voler ricordare che per leggerla e comprenderla è necessario conoscerne il linguaggio e le specificità che le sono proprie.

Tra passato e futuro: quale è il lavoro fotografico a cui è più affezionato e quali saranno i suoi prossimi progetti?
Prima della mia laurea sperimentavo spesso con il foro stenopeico, ricordo ancora l’entusiasmo con cui utilizzavo delle piccole scatolette cariche di pellicole Polaroid con le quali fotografavo dalle riviste gli sguardi di giovani donne impegnate in favolosi amplessi. Quegli sguardi mi hanno sempre ricordato la famosa scultura di Lorenzo Bernini l’“Estasi di Santa Teresa”, il cui modello sembra essere stata davvero una prostituta. Mi piaceva questo terreno dove sacro e profano sembrano coesistere e dove trovano un proprio modo di relazionarsi: la vita ci ha sempre insegnato che gli estremi spesso combaciano e gli opposti si attraggono. Ecco, forse questo è uno dei primi lavori in cui sentivo davvero la necessità di comunicare fotografando… Per quanto riguarda i prossimi progetti voglio sicuramente ritornare nel corridoio indiano DMIC, ma progetti più prossimi riguardano l’area del Nord-Est, dove vivo, e la statale Romea che percorro nei miei spostamenti settimanali da casa al lavoro.

30 settembre 2012

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