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“Lettere a Francesca”: di autenticità, dolore e felicità

In "Lettere a Francesca", Giulia Calligaro scrive un epistolario alla nipotina, per accompagnarla nel cammino della vita.

In “Lettere a Francesca“, l’autrice Giulia Calligaro dedica alla sua nipotina un piccolo epistolario, tra le righe quelle parole che avrebbe voluto conoscere da bambina, per comprendere il dolore e il coraggio che richiede diventare adulti. Pur indirizzando le lettere alla piccola Francesca, il libro si rivolge a quella parte infante che alberga in ognuno di noi, con parole limpide e chiare, con quell’immediatezza tanto cara ai bambini, da sempre portatori di uno sguardo semplice ed onesto verso il reale.

“L’infanzia ha un cielo terso nel petto”, scrive Giulia Calligaro. Lettera dopo lettera, siamo invitati a riflettere sul concetto di autenticità, sulla fragilità che si nasconde nelle piccole cose e sull’equilibrio tra forza e tenerezza, sull’importanza dei sogni e degli incubi che ci vengono a trovare, su quel mistero chiamato amore, sul dolore e la felicità.

Le lettere a Francesca

La soglia

Tutto nasce dal rito di passaggio verso la scuola, che vede Francesca incamminarsi oltre la soglia nella sua divisa a quadretti rossi con lo sguardo incerto ma risoluto, un’iniziazione quasi magica, un’esperienza di confine fra un prima e un dopo, fra un fuori e un dentro: “quel giorno ho capito in quanti istanti casuali dell’infanzia si consuma la nostra innocenza” (Calligaro, 2018).

L’invito è ad avere fiducia nella vita, che scorre giorno dopo giorno secondo un piano oscuro ma sensato, e a serbare speranza nella propria capacità di abitarla.

“Abbi fede, quello che ogni giorno ti si presenterà davanti è il pezzetto di mondo che puoi arare, ogni volta con i colori della tua età”.

Fra tenerezza e forza

“E all’inizio, quando non si sa come proteggere la parte tenera che è dentro, il primo istinto è quello di far diventare dura la corazza, di separare ciò che è resistente e può proteggere, da ciò che è morbido e può soffrire.

Ma in questo modo si oppone uno scudo alla vita, mentre la vita ci mette alla prova non per essere respinta ma per farci diventare ampi, capaci di contenere nuove esperienze senza bisogno di contrarci”. 

Ma come si fa a trovare un equilibrio tra forza e tenerezza? Con parole limpide e care, l’autrice ci indica una strada, che passa attraverso la validazione del proprio sentire, la possibilità di dare un nome alle cose e il benevolo riconoscimento di sé stessi.

“Prova allora a respirare in quei momenti, a dare una faccia alla parte di te che soffre. A chiamarla con un nome, come un’amica. Una parte di Francesca è forte, una è molto sensibile. Ma esistono tutte e due. E una può abbracciare l’altra, non nasconderla. Il segreto, comprenderai nel tempo, è diventare forte dentro, non fuori. La pelle deve restare porosa, far passare ogni prova, e all’interno, a poco a poco, si fa spazio per ogni emozione: per decifrarla, per accettarla”

Di sogni e paure

“Vedi, Francesca, si dicono ‘sogni’ desideri così belli da essere quasi irrealizzabili. Ma di notte i sogni che ci vengono a trovare sono alti, e ci parlano di noi. Arrivano da una profondità antica che ci verrà più e più volte a visitare nella vita. Finiscono lì tante paure. La paura di restare soli, la paura di essere abbandonati, la paura di non poter difendere la propria verità, o di precipitare in un buco di oscurità senza poter scappare.

La paura di non essere accettati e non essere amati. Forse non basterà neppure una vita a guardarli tutti in faccia, ma, ogni volta che ne trasformerai uno in bellezza, nel mondo sboccerà un fiore.”

Sull’amore

Da sempre, i libri delle favole propongono storie di principesse, tratte in salvo da principi in sella a un cavallo bianco, che giurano loro amore eterno. Vicende intricate dove alla fine trionfa l’amore. Ma non è esattamente così.

“Non c’è bugia più grande. E se andrà così, non sarà andata per forza bene. Ti auguro anzi che ti venga data la possibilità di crescere, di non precipitare così fuori di te, addosso ad un altro. Di andare più a fondo nell’esperienza dell’amore”.

A volte ci sembra di avere un buco al centro del petto e avvertiamo l’impellente necessità che qualcuno lo riempia per farci stare bene.  Ma nessuno può riempirlo completamente, perché non è lo spazio di qualcun altro: è il nostro. Nel tentativo di comprendere tutto questo, non ci saranno solo carrozze e castelli, ma delusioni e notti insonni. 

“L’amore, che prima erano la famiglia e un luogo di certezze incondizionate, sarà da lì in poi una domanda a cui cercherai risposta. Quel buchino nel cuore, come una luce intermittente, lampeggerà ora felice, ora spaventato. A volte andrà bene, a volte andrà male”. 

Ma anche se all’inizio farà male accorgersi che la vita va in direzione opposta alle favole che amavamo da bambini, poi capiremo di essere noi, proprio noi, a dover salire su quel cavallo bianco, pronte ad affrontare un nuovo cammino. 

“Ad un certo punto ricomincerai a camminare, a farlo da sola. Ti accorgerai di non essere quel buco nel cuore, di non aver bisogno che qualcuno lo colmi. Che l’amore è in questa scoperta di completezza e che si può donare solo dopo averlo trovato in sé. Salendo alla sua altezza”. 

Di felicità e dolore

L’autrice di “Lettere a Francesca” mette in guardia dalla comune idea di felicità, dalla visione, riduzionista e grossolana, che concepisce la felicità uguale per tutti – una casa sicura, un marito che ci ricopre di comprensione e attenzione, figli bravissimi, lavoro dei sogni, vacanze straordinarie, giovinezza eterna.

“E’ un’idea di felicità che ci imbroglia, che ci mette a rischio di una grande infelicità ogni volta che i nostri progetti vengono delusi e dobbiamo spostare più avanti l’obiettivo della pienezza. Renderlo sempre più irraggiungibile”.

E se quel desiderio, una volta raggiunto, non ci rendesse per nulla felici? Sopraggiunge il dolore, la cosa più temuta del mondo, che non è altro che lo strappo delle illusioni, l’incapacità di accettare le cose come sono davvero, un peccato contro la verità.

“Ti aspetti che la vita vada in una certa direzione e invece poi ne prende un’altra. Allora pianti forte le unghie per impedirle di scorrere verso quel suo flusso naturale. Ecco, è esattamente questa presa, questo rifiuto, il dolore. Questo non accogliere la natura della realtà, il suo continuo trasformarsi. Ed è un peccato di sfiducia, verso i programmi che la vita ha per noi”.

E se riconsiderassimo ogni battuta d’arresto come un momento per fermarsi e interrogarsi, ogni deviazione dal percorso originario come uno svincolo essenziale, durante il quale una strada non più nostra viene sbarrata?

“E siamo costretti, all’inizio sofferenti, di malavoglia, a considerarne un’altra che si apre. Una nuova strada di cui più avanti capiremo il senso”.

L’autrice ci esorta a ritenere il lungo cammino verso la felicità personale come un viaggio complesso, ricco di interruzioni e di passi falsi, di giorni soleggiati e di momenti di pioggia e vento, ciascuno indispensabile per arrivare in fondo.

 “Dunque, se la felicità è questa, Francesca, non includeresti dentro sia le gioie che i dolori? E non faresti del dolore addirittura un amico che ti serve a non perderti?” 

Di autenticità

Dal greco “αutentikos”, che vuol dire “autore”, “che opera da sé”, il termine autenticità significa, in senso lato, avere voce in capitolo sulla propria vita, essere autori di se stessi. La penultima delle “Lettere a Francesca” è incentrata proprio su questo concetto.

“Tu, se puoi, non lasciarti mai sedurre dalla strada più facile, non preoccuparti di cosa pensano gli altri. Neppure le persone più care. Disobbedisci, sii vera […] Perché la vita ci è data per altre ragioni: per imparare, per illuminare i nostri angoli bui, per compierci, secondo una mappa scritta nella nostra anima, non per assomigliare ad uno stampino felice”. 

Ma come possiamo essere sicuri di non perderci, mentre cerchiamo noi stessi? Qual è il segnale da seguire? La gioia, quella autentica, che spesso, nel corso degli anni, sbiadisce, in nome di un’illusoria esultanza che si accende di istanti senza continuità, mentre a poco a poco si sa sempre meno chi si è.

“Se sei fortunata, se la memoria di ciò che sei è davvero ancora forte, la troverai subito. Altrimenti dovrai prima fare delle strade sbagliate, per capire che non portano a te, e poi ritrovare quella che ti conduce a casa”. 

L’ultima lettera a Francesca: di sensibilità e pelle viva

Il congedo dell’autrice ha il sapore dolceamaro degli addii. Nell’ultima delle “Lettere a Francesca”, Calligaro ripercorre le tappe di questo cammino e invita la nipote –  e ciascun lettore dalla pelle viva – ad accettare la propria sensibilità e valorizzarla come la forma più grande di coraggio che la vita può offrire, in qualità di scalpello per tirare via tutto ciò che fa ombra alla verità più profonda delle cose.

“Farà male quando vedrai intorno a te tante persone contente che ti ripeteranno di essere contenta e leggera. E tu desidererai pure raggiungerla questa leggerezza, questa contentezza facile: ma dentro non saprai dove trovarla, perché tutto ti porrà foderato di una pelle che sente, che trasmette altri pensieri”. 

Ma in quella pelle sottile c’è il senso di ciò che si è, un mondo di calma, di pace, dove c’è spazio per tutto. Sarà doloroso, ma necessario, abbandonare ogni sterile copione e disattendere ogni aspettativa sociale su cosa dovremmo essere, a chi dovremmo assomigliare, quali piani dovremmo osservare, in quale modo essere felici. L’invito dell’autrice è di svestire i panni di protagonisti di una storia già scritta da altri e rivendicare il proprio ruolo di legittimi autori della propria favola. 

“Ma se saprai sopportare questo inizio incomprensibile, quel che poi ti attende sarà una favola molto più bella. Perché sarà una favola vera”. 

Annamaria Nuzzo

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