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Quando ho incontrato Luna

La luce, che filtrava dalle tende verde smeraldo, mi svegliò anche quella mattina; non chiudevo mai gli scuri alla finestra, adoravo che quella sfumatura fosse la prima cosa che i miei occhi percepivano al mattino...

(Fatti e persone citate puramente di fantasia)

La luce, che filtrava dalle tende verde smeraldo, mi svegliò anche quella mattina;
non chiudevo mai gli scuri alla finestra, adoravo che quella sfumatura fosse la prima cosa che i miei occhi percepivano al mattino, il verde significa da sempre speranza e ogni nuovo giorno porta sempre nuove speranze. Mi alzai, stiracchiandomi e spostando dolcemente Luna da sopra le mie gambe, appena sentì movimento la mia cagnolina si tiro su in piedi e scese dal letto iniziando a scodinzolare allegramente.

Ricordo ancora il giorno in cui ci incontrammo, ero andata al canile ad accompagnare Laura, un’amica a cui era di recente venuto a mancare il fedele amico di casa e, testuali parole, “non sopportava più il silenzio della casa”, io non ero mai stata una grande amante degli animali ma, non avendo lei la macchina, decisi di accompagnarla. Per me gli animali significavano troppe responsabilità, troppa confusione e levatacce la mattina presto per fare i “bisognini”, io ho sempre odiato tutte e tre le cose, soprattutto l’ultima.

Arrivate al canile trovammo i cancelli chiusi, non so perché ma ebbi la sensazione che sopra quel cancello mancasse quasi una scritta, ricordava in maniera lugubre il cancello d’ingresso dei campi di concentramento, so che è un insulto per chi veramente c’è stato in quei posti, ma quel cancello era così tetro… il canniccio legato alle inferriate non permetteva a nessuno dall’esterno di vedere ciò che accadeva dentro.
Suonammo il campanello e decisi di mettere un bavaglio ai miei pensieri, cosa ne sapevo io di com’erano quelle persone, ma soprattutto io, dall’alto dei miei zero animali (escluso il povero pesciolino rosso regalatomi per i miei otto anni che era tragicamente finito nello scarico del lavandino il giorno dopo, quando per mio zelo, decisi che la sua bolla di vetro era piccola e che nel lavabo sarebbe stato meglio) che diritto avevo di pensare male di qualcuno che dedica una vita a questi esseri?!

Comunque non rimanemmo molto in attesa, la porticina di servizio, vicino al cancello, si aprì qualche istante dopo e una testa grigia fece capolino, “chi siete?” domandò la signora con un tono al di sopra della scortesia, mi irritai subito, ma come si permette questa, io sono una manager di successo, prendo più soldi io in un mese che lei in una vita di risparmio, invece la mia amica, da sempre molto paziente e diplomatica rispose con cortesia “salve signora ho telefonato ieri, ero passata per vedere se avevate un cane da adottare che faccia per me” e le sciorinò uno dei suoi sorrisi scalda cuore; la signora, ancora priva del corpo nascosto dietro alla porticina in ferro, mostrò i denti macchiati che avevano l’aria di non vedere un dentista da millenni, si non sorrise, quello non era un sorriso, sembrava più un ghigno, “ma preeego, entrate!! Mi raccomando però di seguirmi passo passo, qui non ci sono solo cuccioletti dolci, purtroppo quelli che vengono abbandonati sono anche cani che, beh non hanno l’aria molto socievole”.

Varcammo un po’ titubanti le mura di quel mondo parallelo, sembrava veramente di trovarsi in un’altra realtà: dentro c’erano migliaia di box in ferro che avevano come tetto qualsiasi tipo di scarto edilizio, molti erano coperti da pannelli di vetroresina in origine di un bel giallo ma ora neri come la pece a causa delle intemperie e della scarsa cura.
Mentre ci avvicinavamo sentii il braccio di Laura, che sfiorava il mio, percorso da un brivido, era una visione traumatica per me figuriamoci per lei che adorava i cani da una vita!
Letteralmente attaccati alle reti ci fissavano centinaia di cani, alcuni erano soli all’interno dei box, altri in vari gruppi numerosi, anche troppo, altri apparentemente soli, aguzzando la vista notai che ogni box al suo interno aveva delle cucce, beh cucce era una parola grossa per definire quei rifugi di fortuna, per lo più erano cassette di legno rigirate, oppure scatole di cartone alle quali era stato fatto un buco per poterci entrare, in alcuni di questi piccoli antri bui si potevano intravedere dei piccoli bottoni luccicanti, in alcuni casi quei bottoni luccicanti prendevano coraggio dal compagno di gabbia e uscivano dal buio mostrando il corpo che avevano di corredo.

Di quel giorno non ricordavo i cani in se ma la miriade di occhi che sembravano implorare attenzione, ognuno di quegli occhi sembrava dovesse esplodere in una miriade di parole per raccontare di una vita vissuta sotto il segno della sfortuna.
La mia amica, che sentivo provata più di me, rallentò “scusi ma questi cani che stiamo oltrepassando non sono adottabili?” la vecchia, che ci precedeva con passo spedito, si irrigidì e facendo un respiro si voltò verso di noi sempre con la dentatura in bella mostra “no cara, loro o sono già stati chiesti da qualcuno oppure non sono adottabili” a quel punto la mia lingua non volle saperne di seguire il mio cervello che la frenava “che significa non adottabili?” dissi senza tante cerimonie, a quel tono la signora eliminò anche il sorriso falsamente costruito e ribattè “che non si danno via perché non sono adatti a stare in famiglia, c’hanno ‘i caratteraccio”.

Invece di farmi piccola piccola per il tono di sfida decisi di stare in silenzio e riflettere sulle prossime parole, pompandomi all’interno di una rabbia inestinguibile, nel rispondermi in quel modo sgarbato la signora non aveva fatto altro che svegliare l’Agatha Christie che c’era in me, se li c’era qualcosa di marcio, oltre ai denti del nostro Virgilio, l’avrei scoperto sicuro, perché un conto è che non ti piacciano gli animali e un conto è odiarli o maltrattarli.
Continuando in quel corridoio mi sentivo un po’ come un “dead man walking”, cosciente che in fondo al cammino non ci fosse niente di buono, avevo la netta sensazione che fosse come nei gironi dell’inferno, più avanti vai più orrore ti troverai di fronte.

Laura iniziò ad avere le mie stesse sensazioni, all’orecchio mi bisbigliò che forse avevamo sbagliato canile, che in altri l’ambiente non era così, io mi portai il dito indice alle labbra, facendole capire che non era il caso di farsi sentire dalla guida poi presi il telefono e le inviai un sms “non saresti più contenta di portare via una cane da qui anziché da un canile dove stanno bene?”, appena lesse mi sorrise, uno dei suoi sorrisi buoni, lei era la Pollyanna fra le due, sempre positiva, allegra, con una parola dolce per chiunque, aveva scelto di fare la maestra d’asilo ed era in assoluto il lavoro più adatto, sicuramente quei piccoli scalmanati (ovviamente non mi piacciono neanche i bambini) sarebbero sicuramente diventati uomini rispettosi e buoni grazie a lei.

Eravamo quasi arrivati al cuore di quella fortezza degli orrori quando si sentì provenire, da una delle celle (mi sembra più appropriato chiamarle così), un uggiolio più intenso degli altri, mi fece venire la pelle d’oca e mi riempì gli occhi di lacrime – vi assicuro che non è impresa da poco, mi chiamano la strega a lavoro e un motivo c’è – ci voltammo cariche di ansia per quello che ci aspettava, un cane che era legato ad una catena, a furia di girare in tondo si era avvolto e quel ferro arrugginito che gli stava lacerando le zampe posteriori, vedendo che la signora procedeva del suo passo senza un minimo accenno a volersi fermare le urlai dietro con voce ferma “Ehi! ma non lo vedi quel cane?” senza voltarsi mi disse che ci avrebbe pensato dopo che era mordace e bisognava avvicinarsi con precauzioni, allungai il passo e le afferrai il braccio “No, ora chiami qualcuno, chi ti pare e ti fai aiutare a liberarlo”, non so se vide la rabbia nei miei occhi ma inarcò la spalle con aria rassegnata e chiamo il figlio.

Gino, così si chiamava il pargolo, non era altri che un omaccione corpulento, per non dire obeso, e molto molto unto e sporco, diciamo quello che non sogneresti mai come principe azzurro dei sogni, forse solo quando ancora non l’hai trasformato col bacio.
Madre e figlio procedevano a passo svelto in direzione della povera bestiola ferita, che peraltro aveva tutto tranne che l’aria dell’animale feroce; la mia amica mi strinse il braccio quando il Gino si avvicinò e sovrastò l’animale con aria minacciosa, in effetti sembrava che per risolvere il garbuglio di catena avesse la semplice soluzione di liberarsi della zampa.
Il cagnolino ferito nel vederli arrivare si zittii e si rannicchiò facendosi piccolo, si vedeva che quei due gli incutevano timore e, quando iniziò a tremare, dalla cuccia di cartone vicino, si sentì un ringhio basso e vibrante.

Mi girai d’istinto cercando di individuare il cane da cui provenisse e allora vidi nell’oscurità dell’antro una macchia bianca, sembrava una mezza luna crescente, dopo pochi attimi l’animale uscì alla luce. Era un cane tutto nero tranne che per lo spicchio visto inizialmente, era enorme ed incuteva una paura incredibile, anche la mia dura corazza tremò di fronte ad una dimostrazione di potenza di tale calibro. Stranamente però il grosso orso non si mosse, non attaccò, rimase immobile come una statua a vigilare sull’operato dei due malfattori fino a che, ancora timorosi per la quella presenza vigilante, non liberarono il compagno di cella.

Quando finirono, la signora, ci disse di rimanere lì ad aspettare intanto che andava a lavarsi le mani, mentre si allontanava la imbeccai “mi raccomando si ricordi il disinfettante per il cane” sapevo che non aveva la minima voglia di prenderlo ma borbottando qualcosa di poco carino nei miei confronti fece un segno di assenso con la mano senza voltarsi.
Rimaste sole, io e Laura ci guardammo, indecise se correre via a gambe levate o continuare nella nostra crociata, d’istinto ci avvicinammo con cautela ai due inquilini della gabbia teatro del precedente atto.
Conoscevo la mia amica e sapevo, dal suo sguardo, che aveva già scelto il suo amico a quattro zampe, quel cane non avrebbe più corso il rischio di rimanere impigliato nella propria catena e, mentre lei si avvicinava al malcapitato, d’istinto mi girai a tenere d’occhio il suo protettore.

Quello che accadde non me lo saprò mai spiegare ma si potrebbe dire che due scontrosi si erano trovati, guardai quella grossa montagna di pelo color pece con un misto di rispetto ed orgoglio e probabilmente, come accade alle anime gemelle, anche lei (poi scopri che era una femmina) mi riconobbe, chinò la testa di fronte a me e iniziò a scodinzolare, non so se per pura follia e incoscienza oppure per altro mi avvicinai in modo che potesse avvicinarsi a sua volta, iniziai ad accarezzarla sul fianco e piano piano fu un crescendo di confidenza fino a che… Beh, qui torniamo all’inizio della storia, lei che dorme sul letto con me, appoggiata alle mie gambe e io che sorrido solo nel vederla appena mi sveglio, anche se sono le sei del mattino e ho le gambe addormentate per il suo peso.

Delia Giovannini

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