Igor Savitsky, un uomo fuori dal comune. In piena Unione Sovietica, mentre il regime imponeva un’arte di propaganda fatta di leader radiosi e fabbriche scintillanti, un uomo solo si mise contro tutto e tutti per salvare i capolavori della pittura del Novecento. Il suo nome era Igor Vitalyevich Savitsky, e la sua storia ha dell’incredibile: ha salvato e nascosto in un deserto dell’Asia Centrale oltre 80.000 opere d’arte proibita, che rischiavano di scomparire per sempre. Mentre intellettuali, poeti e pittori cadevano uno a uno sotto la scure della censura, lui costruiva in segreto un’arca dell’arte, lontano dagli occhi del potere.
Igor Savitsky: un eroe sconosciuto che sfidò il Realismo Socialista
Savitsky nacque nel 1915 nell’Impero Russo e crebbe nell’URSS di Stalin, un’epoca in cui la libertà espressiva era bandita e il Realismo Socialista era l’unica forma d’arte ufficialmente tollerata. Trovò nella pittura d’avanguardia — quella che il potere definiva “borghese”, “decadente”, “antisovietica” — la sua vera vocazione. Iniziò la sua carriera come disegnatore per spedizioni archeologiche, ma fu presto travolto dalla passione per l’arte moderna.
Quando capì che i capolavori dei grandi pittori russi venivano distrutti o censurati, iniziò a recuperarli con una determinazione feroce. Mentre molti artisti erano stati deportati nei gulag, costretti al silenzio o indotti a rinnegare il proprio stile, Savitsky rovistava tra le loro tele nascoste in cantine, solai, vecchi studi e bauli dimenticati. Non salvò uno o due quadri: ne raccolse decine di migliaia. Tra le sue mani passarono opere cubiste, astratte, simboliste, futuriste, suprematiste — stili che il regime condannava come tradimenti ideologici.
Il Karakalpakstan: un non-luogo ai confini della memoria
Il luogo in cui decise di custodirle è quasi simbolico: il Karakalpakstan, una regione ai margini dell’impero sovietico, oggi parte dell’Uzbekistan. Una terra remota, bruciata dal sole e dimenticata dalla storia. Qui, il silenzio del deserto faceva eco al silenzio imposto agli artisti dissidenti.
Non lontano, si consumava uno dei più gravi disastri ecologici del secolo scorso: il prosciugamento del Lago d’Aral, causato da politiche agricole scellerate che deviarono i fiumi che lo alimentavano. L’aria si riempì di polveri tossiche, e la terra diventò sterile. Poco distante si trovava anche Aralsk-7 (anche conosciuto come Kantubek), una base militare segreta dove venivano condotti test con armi batteriologiche, oggi un paesaggio spettrale abbandonato al degrado.
Il museo “alla fine del mondo”
In questa terra desolata, Savitsky fondò il suo museo, nella capitale regionale di Nukus, una piccola oasi urbana nel nulla. Lo fece con astuzia e coraggio, ottenendo paradossalmente i fondi dallo stesso Stato che metteva all’indice le opere che lui intendeva conservare.
Riuscì a convincere i funzionari locali che stava documentando la cultura del popolo karakalpako, mentre in realtà costruiva una delle più grandi collezioni d’arte d’avanguardia del mondo. Il Museo Savitsky — oggi definito “Il Louvre del deserto” — è una meraviglia poco conosciuta: la seconda collezione al mondo di arte russa del primo Novecento, dopo il MoMA di New York, custodita in un luogo dove nessuno si aspettava di trovarla.
Anche se proibito: il romanzo sulla sua impresa
Nel 2025 la sua vicenda è tornata alla luce grazie al romanzo “Anche se proibito – La folle impresa di Igor V. Savitsky” di Giulio Ravizza. Un libro appassionante che racconta non solo le tappe straordinarie della vita di un uomo fuori dal comune, ma anche la sua lotta per difendere la libertà dell’arte in un’epoca in cui la bellezza poteva costare la libertà o la vita.
Il romanzo si muove tra paesaggi reali e invenzione narrativa, intrecciando le vite di artisti perseguitati e di un visionario che ha sfidato la censura armato solo di passione. È un omaggio a un uomo dimenticato dalla storia, ma ricordato dalle opere che ha salvato. Un eroe solitario che ha nascosto la libertà nei colori, tra le sabbie del deserto.