Un filosofo come Arthur Schopenhauer aveva già guardato in avanti. La frustrazione e la mancanza di gratificazione colpiscono oggi un numero crescente di persone in ogni ambito della vita: nel lavoro e nello studio, in amore e nelle amicizie, o persino nel tempo libero, come accade quando l’applicazione in uno sport non è vista o riconosciuta dall’allenatore.
Di fronte a questa crisi di riconoscimento, il filosofo tedesco offre la risposta più radicale, sostenendo che la dipendenza dal giudizio altrui è la radice stessa dell’infelicità. La cura, secondo Schopenhauer, non è cercare la lode, ma un attacco strategico per riaffermare il proprio valore interno.
La diagnosi profetica sulla tirannia di “ciò che si rappresenta”
L’analisi di Arthur Schopenhauer è profetica perché individua l’errore centrale dell’individuo moderno, un errore oggi amplificato dalla società dell’immagine. Nel trattato Aforismi per la saggezza nella vita (1851), Schopenhauer distingue tre fonti della felicità: Ciò che si è, Ciò che si ha, e Ciò che si rappresenta. Quest’ultima, l’opinione altrui, diventa per l’essere umano una prigione.
Il filosofo nella Parte Prima, Capitolo I dell’opera osserva questa debolezza particolare con cinismo:
Ciò che rappresentiamo, o, in altri termini, la nostra esistenza nell’opinione altrui è generalmente, in conseguenza di una debolezza particolare della nostra natura, troppo apprezzata, benché la più piccola riflessione possa insegnarci che tutto questo per sè stesso non ha importanza alcuna per la nostra felicità.
La grande soddisfazione interna che si prova quando si viene lusingati non è gratificazione duratura, ma un sollievo momentaneo, una “medicina” che rende l’individuo schiavo del giudizio esterno.
La mancanza di gratificazione sorge quando questo rifornimento esterno viene interrotto.
Non bisogna vivere basandosi sull’opinione altrui
L’attacco di Schopenhauer non è rivolto al mondo, ma alla convinzione dell’individuo che il mondo abbia il potere di giudicarlo. Il filosofo invita a distruggere l’autorità del giudice con la ragione.
Egli distingue chiaramente le forze che legano l’uomo all’opinione altrui:
- La Vanità
Il vizio che lo rende schiavo della lode. - L’Ambizione
La spinta a compiere imprese solo per ottenere onore e rango, legando la propria felicità ai risultati esterni. - L’Orgoglio
La salda convinzione del proprio valore interiore, l’unica forza che garantisce l’indipendenza.
Per l’individuo che non è riconosciuto, Schopenhauer impone di guardare chi emette il giudizio.
Il filosofo, infatti, sottolinea l’estrema fallibilità e superficialità del giudizio comune nel Capitolo 4, parte prima del trattato Aforismi per la saggezza nella vita:
Servendo di base al sentimento dell’onore, questa proprietà può avere un’influenza salutare sulla buona condotta di moltissime persone, a guisa di succedaneo della loro moralità; ma in quanto alla sua azione sulla felicità reale dell’uomo, e sopratutto sulla quiete dell’animo e sull’indipendenza, le due condizioni sì necessarie alla felicità, essa è piuttosto perturbatrice e dannosa che favorevole.
L’individuo è invitato a considerare chi sono coloro che negano il riconoscimento. Se una persona superficiale non riconosce il merito, il suo giudizio è da disprezzare poiché non sminuisce il valore di chi agisce con integrità, ma rivela la cecità del giudicante. L
a reazione deve essere di spietato disprezzo intellettuale, poiché il mancato riconoscimento si trasforma in una medaglia al valore intellettuale.
Il prezzo del non riconoscimento e le sue conseguenze sulla psiche
Quando l’individuo non riesce a liberarsi della dipendenza dal riconoscimento esterno, le conseguenze della mancanza di gratificazione diventano strutturali. La frustrazione cronica si traduce in una ridotta autostima, che a sua volta alimenta un circolo vizioso di procrastinazione e ritiro dell’impegno (il “perché sforzarsi?”).
La ricerca incessante di una conferma nel lavoro o nei rapporti personali porta a instabilità emotiva e relazionale. L’individuo, non potendo esprimere la rabbia per l’ingiustizia percepita, può sviluppare aggressività passiva o cadere in stati di risentimento e cinismo.
La mancanza di un valore interno stabile è, in sostanza, la base per l’insorgenza di stati di ansia e depressione, mentre il vuoto emotivo viene spesso colmato con gratificazioni sostitutive (come il consumismo eccessivo) legate alla terza categoria fallace, “Ciò che si ha”.
Per non vivere in funzione degli altri
Per reagire alla mancanza di gratificazione, Schopenhauer impone un ritiro strategico del valore dall’esterno verso l’interno. L’individuo deve smettere di mendicare riconoscimenti e investire tutto nella sua riserva inesauribile: “Ciò che si è”.
Questa strategia si basa sulla tesi centrale del trattato:
Noi abbiamo già conosciuto in modo generale che ciò che si è contribuisce alla nostra felicità più di ciò che si ha o di ciò che si rappresenta. La cosa principale è sempre ciò che un uomo è, in conseguenza ciò che possiede in lui stesso, perocchè la sua individualità l’accompagna dappertutto e dovunque, e colora di sua tinta tutti gli avvenimenti della vita. In ogni cosa, ed in ogni occasione quello che a bella prima gli fa impressione è lui stesso. Questo è già vero per i piaceri materiali, e, a più forte ragione, per quelli dell’anima.
Il tempo che l’individuo spende a preoccuparsi del giudizio altrui deve essere convertito in tempo speso a curare la propria ricchezza interiore (cultura, studio, integrità). Questo rafforza l’Orgoglio, rendendo la solitudine un privilegio e non una condanna. La gratificazione forte è data dall’autosufficienza, un tesoro che non può essere rubato.
L’insegnamento di Schopenhauer è che la reazione più forte alla mancanza di gratificazione in ogni aspetto della vita è il ritiro dal campo di battaglia esterno e la dedizione alla forza della propria integrità e ricchezza interiore. L’individuo deve diventare il suo unico, e più severo, giudice.
Per reagire bisogna credere in sé stessi
L’insegnamento di Schopenhauer indica una via d’uscita che non promette consolazioni facili, ma una liberazione autentica. Reagire alla mancanza di gratificazione significa sottrarre potere al mondo e restituirlo alla propria interiorità. Chi smette di combattere per essere visto scopre che la battaglia decisiva è sempre interna. Ed è lì, nella solidità del carattere, nello studio, nella cultura, nella cura del proprio ingegno, che nasce una forma di forza che non dipende da nessuno.
La gioia più alta non è quella che arriva quando qualcuno ci riconosce, ma quella che sorge quando capiamo di non averne più bisogno. È la calma dell’autosufficienza, la libertà di sapere che il nostro valore esiste anche nel silenzio, anche quando nessuno lo osserva o lo premia. Diventare il proprio giudice significa accettare una disciplina più severa, ma anche più giusta, perché fondata sulla verità e non sulle oscillazioni dell’opinione altrui.
Resta allora la domanda che nessuna filosofia può evitare. L’individuo è davvero pronto a rinunciare alla vanità, a spezzare il bisogno di essere visto e a costruire un orgoglio che nasce solo da ciò che è? La risposta segna il confine tra dipendenza e libertà, tra vita subita e vita scelta. È su questo confine che Schopenhauer ci invita a sostare, e a decidere finalmente chi vogliamo essere.
