Orazio insegna perché il “mollo tutto” non garantisce la felicità

28 Novembre 2025

Il sogno di fuggire via è spesso un'illusione. Una celebre massima di Orazio svela perché cambiare vita non serve se soffriamo di "strenua inertia".

Orazio insegna perché il "mollo tutto" non garantisce la felicità

C’è un sogno proibito che accarezza la mente di milioni di persone, mollare tutto e fuggire via. Aveva già compreso questa esigenza il poeta latino Orazio Flacco Quinto, più di duemila anni fa, che aveva già inquadrato che l’immaginario collettivo è saturo di questa fantasia di riscatto. Allo stesso tempo aveva offerto già la sua risposta a tutti coloro che pensano che la soluzione al malessere sia consegnare le dimissioni, disdire l’affitto nella metropoli frenetica e ricominciare altrove, magari in un luogo esotico o in una campagna isolata dove i ritmi sono lenti e il Wi-Fi è un ricordo.

Ma, come dimostra il poeta latino molte volte “fare i bagagli” non è la soluzione più giusta. Il concetto di “cambiare vita” inseguendo il sogno di una meta diversa per trovare la tanto desiderata felicità è un mito fragile, smontato con precisione chirurgica da una massima che Orazio che tutti coloro avvertono questa esigenza dovrebbero seguire con attenzione.

Caelum, non animum mutant qui trans mare currunt.

Coloro che varcano il mare mutano il cielo, non l’animo.

La sentenza del poeta latino, tratta dalle Epistole (Libro I, 11, 27), risuona come un avvertimento per l’uomo moderno ossessionato dalla fuga. La frase di Orazio distingue nettamente tra due sfere che spesso vengono confuse. Da una parte c’è il “Cielo, ovvero il contesto esterno (l’ufficio, la città, il paesaggio). Dall’altra c’è l'”Animo”, la struttura interiore, le inquietudini, il modo di reagire agli eventi. Chi scappa cambia solo il primo.

Ma il secondo, con le sue ansie, le sue rigidità e i suoi conflitti irrisolti, viaggia clandestinamente nel bagaglio. È un peso invisibile che non viene lasciato alla frontiera.

Il contesto della massima di Orazio

Per comprendere la potenza della massima di Orazio, è necessario osservare dove essa fiorisce. La frase non è un aforisma isolato, ma il cuore pulsante dell’Epistola 11 del Libro I. Il destinatario è Bullazio, un amico del poeta che oggi definiremmo un “viaggiatore senza meta” insoddisfatto. Bullazio sta viaggiando attraverso le mete più esclusive dell’Asia Minore, Chio, Lesbo, Samo, i “Caraibi” dell’antichità, alla ricerca di un benessere che gli sfugge.

Orazio non si limita a dargli un consiglio, ma smonta pezzo per pezzo la sua strategia di fuga attraverso una serie di immagini folgoranti che preparano il terreno alla celebre sentenza.

1. La tentazione di “Lebedo” (La voglia di sparire)

Bullazio è talmente stanco del mondo che confessa di voler vivere a Lebedo, un villaggio abbandonato e deserto. Orazio riporta il pensiero dell’amico:

Vorrei vivere colà e, dimentico de’ miei, sperando anche d’esser dimenticato da loro, osservare da un punto remoto della costa le tempeste del mare.

È la fotografia perfetta del “mollo tutto” contemporaneo, ovvero il desiderio non di scoprire il mondo, ma di nascondersi in un buco nero per “dimenticare ed essere dimenticati”.

2. L’errore del turista (L’osteria non è casa)

Il poeta latino incalza l’amico con una metafora pratica. Se un viaggiatore si ferma in una locanda per ripararsi dalla pioggia, non per questo decide di viverci per sempre.

Né chi soffre di reumi loderà i bagni e le terme, come se quelle potessero apprestargli la vita beata.

Le vacanze, i viaggi, i momenti di pausa sono “locande”. Scambiarle per la soluzione definitiva alla vita è un errore di prospettiva.

3. Il cappotto d’estate

Infine, prima di arrivare alla massima sul “cielo e l’animo”, Orazio sferra l’attacco decisivo. Vivere in un paradiso come Rodi o Mitilene senza avere la pace interiore è grottesco e fastidioso come indossare un abbigliamento fuori stagione:

Rodi e Mitilene si confanno, come d’estate un tabarro, alle brezze invernali una maglietta, un bagno in dicembre e il caminetto in agosto.

È qui che il messaggio complessivo di Orazio si rivela. La bellezza esterna non cura, ma irrita. Un luogo magnifico non fa che risaltare, per contrasto, la bruttezza del malessere interiore. Solo dopo aver chiarito questo contesto, Orazio può pronunciare la sentenza definitiva. Cambiare cielo è inutile, perché l’inquietudine è un bagaglio che non si può lasciare a terra.

Il poeta è lapidario nei suoi suggerimenti all’amico Bullazio.

Tu qualunque ora felice ti sarà largita dagli dèi, accettala con grato animo, e non attender l’anno venturo per goderne; acciocché tu possa dire d’esser vissuto lietamente dovunque ti trovassi.

Il monito di Orazio, attenzione alla Strenua Inertia

Perché, nonostante l’evidenza dei fatti, l’essere umano continua a inseguire il miraggio del “nuovo inizio”? Orazio, nella stessa Epistula 11, offre una definizione folgorante che anticipa di secoli la psicologia moderna. Parla di “Strenua Inertia”.

Strenua nos exercet inertia: navibus atque quadrigis petimus bene vivere

Noi affatica un’accidia irrequieta. Inseguiamo su navi e su quadrighe la felicità ma quel che tu cerchi è qui; è ad Ulubra, se non ti manca l’animo equilibrato.

L’espressione è un ossimoro geniale. Strenua indica vigore, attività, sforzo; Inertia indica immobilità, pigrizia spirituale. È la diagnosi perfetta della nevrosi contemporanea: una mobilità frenetica esteriore messa in atto per nascondere una paralisi interiore.

Ci si agita, si trasloca, si cambia carriera, si viaggia compulsivamente attraverso il mondo (con “navi e quadrighe”, oggi diremmo aerei e treni ad alta velocità) facendo una fatica immane. Eppure, spiritualmente, si rimane fermi nello stesso punto. È un movimento orizzontale usato per evitare l’unico movimento necessario: quello verticale, dentro di sé.

La soluzione del grande poeta latino è  l’Aequus Animus (l’equilibrio interiore)

Se la fuga non è la soluzione, dove risiede la risposta? Orazio conclude il suo ragionamento con un messaggio che è l’antitesi del concetto della felicità moderno. Non serve andare a Samo o a Chio.

Quod petis, hic est, est Ulubris, animus si te non deficit aequus.

Ma quel che tu cerchi è qui; è ad Ulubra, se non ti manca l’animo equilibrato.

Ulubra era un villaggio paludoso e insignificante dell’epoca, il posto meno “instagrammabile” del mondo antico, noto per il gracidare delle rane e la desolazione. Eppure, sostiene il poeta, la felicità è accessibile anche lì. La variabile fondamentale non è il luogo (Locus), ma l’Aequus Animus: l’equilibrio interiore, la capacità di stare in asse con se stessi indipendentemente dal contesto.

Basta con l’apologia del “mollo tutto”

In un’epoca che spinge costantemente a cercare la vita “altrove”, la lezione di Orazio è un richiamo alla realtà radicale. Mollare tutto è inutile se non si impara prima a non mollare se stessi. Il vero viaggio non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi per guardare quelle in cui già si vive.

Finché non si risolve la propria “strenua inertia”, ogni partenza sarà solo un’illusione ottica, e ogni arrivo una nuova delusione. La felicità non è una destinazione geografica, ma è un modo di abitare il mondo, persino a Ulubra.

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