Per il Capodanno 2026 abbiamo scelto di affidarci agli auguri di Seneca, la massima più autentica per iniziare un anno nuovo pieno di vera e sana gioia. I suoi auguri, però, non assomigliano a quelli che ci scambiamo abitualmente alla fine dell’anno. Non promettono fortuna, non affidano la felicità al caso, non cercano protezione nei brindisi di mezzanotte, negli oroscopi o nei piccoli gesti scaramantici che accompagnano il passaggio del calendario.
Quei riti, antichi e condivisi, non sono ingenui. Sono tentativi profondamente umani di difesa. Servono a esorcizzare l’incertezza e a dare una forma rassicurante a un futuro che resta opaco. Ma proprio in questa attesa silenziosa si nasconde un equivoco decisivo: delegare al tempo che viene ciò che riguarda la qualità della propria vita interiore.
Duemila anni fa, in un’epoca segnata da instabilità politica, crisi morali e paura del futuro, Seneca mise in guardia l’amico Lucilio da questa illusione. Nella Lettera 23 delle Lettere a Lucilio, il filosofo romano formulò un augurio radicalmente diverso da quelli che ancora oggi ci scambiamo.
Un augurio che non riguarda la fortuna, ma la solidità dell’animo.
Mihi crede, verum gaudium res severa est.
Credimi: la vera gioia è una cosa seria.
La gioia non è un regalo, è una conquista
Quando Seneca parla di gioia, nella Lettera 23, chiarisce subito un punto essenziale: chi fa dipendere la propria felicità da ciò che è esterno vive in uno stato di inquietudine permanente. Anche quando tutto sembra andare bene, resta esposto all’incertezza, perché ha consegnato la propria serenità alla volontà altrui e al caso.
È inquieto ed incerto su sé stesso chi si lascia sedurre da qualche speranza
Questo scrive il filosofo, anche quando quella speranza appare vicina e facilmente realizzabile. La ragione è profonda. Ciò che nasce dall’attesa di qualcosa che deve arrivare non è mai stabile.
Per questo Seneca invita Lucilio a compiere un passaggio decisivo, che non ha nulla di consolatorio:
Innanzitutto, o mio Lucilio, impara a gioire intimamente.
La gioia autentica non è un evento che accade, ma una disposizione che si costruisce. Non viene promessa dal futuro, ma nasce “in casa”, dentro l’animo, quando si smette di dipendere da ciò che può essere tolto. Tutte le altre forme di allegria, avverte Seneca, sono superficiali, lasciano il cuore vuoto, distendono appena il volto senza rendere davvero saldo chi le prova.
La vera gioia, invece, è quella di un animo «allegro, sicuro di sé e superiore a tutti gli eventi». È per questo che può permettersi di guardare in faccia la perdita, il dolore, perfino la povertà, senza perdere la propria integrità.
Ed è qui che Seneca pronuncia una delle frasi più radicali della filosofia antica:
Mihi crede, verum gaudium res severa est.
Credimi: la vera gioia è una cosa seria.
Seria perché non è fragile. Seria perché non dipende dal caso. Seria perché nasce solo quando si smette di cercarla fuori.
Dove si nasconde la vera ricchezza: la metafora delle miniere
Per rendere ancora più chiaro il suo pensiero, Seneca ricorre a un’immagine concreta, quasi fisica. Non parla per astrazioni. Parla di terra, di fatica, di profondità. E lo fa con una metafora che smaschera definitivamente l’illusione di una gioia facile.
Ciò che si ricava dalle miniere di scarso valore è alla superficie del suolo
I metalli poveri si trovano in alto, a portata di mano. Non richiedono scavo, né pazienza, né resistenza. Proprio per questo valgono poco.
Le miniere davvero ricche, invece, sono quelle
il cui metallo, nascosto nelle profondità della terra, risponde tanto più abbondantemente quanto maggiore è la fatica dello scavatore.
Il paragone è netto. Tutto ciò che attrae la maggioranza, il successo, il piacere immediato, l’approvazione, ciò che “brilla” all’esterno, offre una soddisfazione lieve e instabile. È una gioia di superficie, che non ha radici e per questo non regge quando le circostanze cambiano.
Seneca lo dice senza ambiguità. Ogni gioia che proviene dall’esterno è priva di fondamento. Quella autentica, invece, è «sicura» perché nasce dentro l’animo e cresce proprio lì dove non è esposta al caso.
È una gioia che non fa rumore. Non promette euforia. Ma più si scava, più diventa solida. Ed è per questo che Seneca non invita a cercare altrove, ma a cambiare direzione: non verso l’alto, dove tutto luccica, ma verso il profondo, dove ciò che conta davvero richiede tempo, silenzio e misura.
Gli auguri di Seneca per il nuovo anno
A questo punto Seneca formula l’augurio che racchiude tutti gli altri e li supera. Non è una frase di conforto, ma un criterio di vita:
Ad verum bonum specta et de tuo gaude.
Rivolgi lo sguardo al vero bene e godi di ciò che è tuo.
L’espressione è netta, priva di ambiguità. “Godi di ciò che è tuo” non significa accontentarsi di poco né rinunciare al mondo. Significa, al contrario, smettere di fondare la propria felicità su ciò che non dipende da sé.
Seneca chiarisce subito cosa intenda per “ciò che è tuo”: non i beni esteriori, non il corpo, non ciò che può essere tolto o compromesso dagli eventi. Ciò che è veramente nostro è l’animo, e in particolare «la parte migliore di noi stessi»: la coscienza, la rettitudine delle intenzioni, la coerenza tra ciò che si pensa e ciò che si fa.
Anche il corpo, pur necessario, resta secondario. Seneca lo dice senza esitazioni, perché il corpo è la sede dei desideri che chiedono sempre di più e che, se non sono governati dalla misura, scivolano facilmente nel loro contrario. Il piacere, avverte, «è sull’orlo dell’abisso» e diventa dolore quando supera il limite.
Il vero bene, invece, non espone a pericoli. Non crea dipendenza. Non costringe a inseguire. È stabile perché non ha bisogno di essere difeso dal caso.
Ed è per questo che Seneca può permettersi un’affermazione tanto radicale quanto attuale: solo chi gode di ciò che è veramente suo non è in balia degli eventi. Tutti gli altri, anche quando sembrano felici, vivono in prestito.
Non vivere trascinati: l’immagine degli arboscelli
Per descrivere cosa accade a chi non fonda la propria vita su un principio saldo, Seneca ricorre a un’immagine semplice e durissima. Dice che la maggior parte degli uomini non guida sé stessa, ma viene portata dagli eventi, «come arboscelli che galleggiano sulle acque di un fiume».
Alcuni vengono sospinti da una corrente lieve e avanzano senza urti. Altri sono trascinati con violenza. Altri ancora finiscono contro la riva o vengono gettati in mare aperto. La differenza non è la forza dell’acqua. È l’assenza di una direzione.
Chi cambia continuamente propositi, chi si lascia guidare dalle circostanze o dalle speranze del momento, non costruisce nulla di stabile. Non perché manchi di opportunità, ma perché manca di una norma interiore a cui restare fedele. Seneca è esplicito: solo pochi regolano la propria vita secondo un principio fermo; quasi tutti sono trasportati dal caso.
Ed è qui che introduce una delle affermazioni più severe dell’intera lettera, riprendendo una massima di Epicuro:
Non è felice la vita di chi comincia sempre a vivere.
Chi comincia sempre non arriva mai. Chi rimanda continuamente a domani non compie nulla oggi. E chi non compie la propria vita, avverte Seneca, non è nemmeno pronto a lasciarla andare.
Il vero augurio per l’anno nuovo
È per questo che gli auguri di Seneca non coincidono con il desiderio di un anno facile o fortunato. Non promettono che tutto andrà bene. Promettono qualcosa di più esigente. La possibilità di non essere in balia di ciò che accade.
Augurare un anno nuovo pieno di gioia vera, nella prospettiva di Seneca, significa augurare un animo retto, propositi stabili, una vita coerente che non oscilli a ogni cambiamento. Significa imparare a non affidare la propria felicità a ciò che viene dall’esterno, ma a ciò che può essere custodito e coltivato dentro.
Per questo il suo augurio resta attuale anche oggi, forse più di ieri. In un tempo che spinge a ricominciare continuamente, Seneca invita a compiere. In un mondo che chiede di sperare, invita a fondare.
De tuo gaude.
Godi di ciò che è tuo.
È un augurio sobrio, severo, profondamente umano. Ed è forse l’unico che non teme il passare del tempo.
