Nelle piazze e nel discorso digitale sta emergendo un modo di vivere l’attivismo contemporaneo che si definisce costantemente “Pro”. Pro-Diritti, Pro-Pace, o sostenitori di una specifica fazione nei conflitti in corso. Il prefisso latino “Pro” indica un movimento in avanti, una spinta a favore di qualcosa, una volontà di costruzione e difesa. Eppure, se si abbassa il volume degli slogan e si osserva con distacco la dinamica reale delle manifestazioni odierne, si scopre che quel “a favore” merita maggiore tutela.
Quello a cui si sta assistendo è uno scivolamento collettivo, silenzioso ma inesorabile. Lo scambio dell’essere sostenitori con l’essere tifosi radicali. La differenza non è formale, è sostanziale. Chi è Pro mantiene al centro della sua azione l’oggetto del suo sostegno (la tutela di un popolo, la difesa di un diritto).
Chi scivola nella dinamica opposta, invece, sposta il baricentro: smette di guardare il campo di gioco, smette di preoccuparsi del risultato concreto, e si gira verso la curva avversaria. L’obiettivo cessa di essere la vittoria della propria causa e diventa l’annientamento simbolico, verbale e talvolta fisico del nemico.
È in questo preciso istante che l’attivista smette di esistere e nasce l’Ultra. Non si tratta di una semplice degenerazione del linguaggio, ma di un fenomeno sociale profondo che, attraverso le lenti di sociologi come Eva Illouz, Pankaj Mishra e Michel Maffesoli, possiamo rintracciare non nella politica, ma nella psicologia collettiva.
Il bisogno di identità e lo sfogo della rabbia hanno trasformato l’impegno civile in una performance emotiva, dove l’appartenenza alla tribù conta più della salvezza delle vittime.
Genealogia dell’eccesso Ultra
Definirlo “Ultra” non è un semplice vezzo metaforico, ma il richiamo a una storia precisa che spiega esattamente ciò che sta accadendo. Per comprendere la gravità di questo passaggio, è necessario guardare all’origine della parola stessa. Il termine deriva dal latino “ultra”, con il significato inequivocabile di “oltre”, “più in là”. Ma è la sua evoluzione politica a svelarne il pericolo odierno.
Già nella Francia rivoluzionaria, e ancor più durante la Restaurazione (1815-1830), la parola identificava gli ultraroyaliste, ovvero i sostenitori della monarchia così radicali da essere definiti “più realisti del Re”. Erano coloro che, per eccesso di zelo e purezza ideologica, finivano per diventare un ostacolo alla stessa causa che difendevano.
È questa la radice che, passando per l’estremismo politico italiano degli anni di piombo, è approdata infine negli stadi. Ed è qui che va fatta una distinzione fondamentale. Sebbene nel gergo calcistico italiano si sia imposta la forma accentata “Ultrà” per indicare il tifoso organizzato, in questa sede è necessario recuperare la grafia originale “Ultra” (senza accento) per una ragione strutturale. “Ultra” (andare oltre) è l’esatto opposto semantico di “Pro” (andare avanti/a favore). Non stiamo parlando solo di tifo, ma di una categoria dello spirito: la dismisura.
Qui, l’Ultra non è sinonimo di hooligan (il tifoso caotico e disorganizzato), ma definisce uno “zoccolo duro” gerarchico e totalizzante. Quando l’attivismo contemporaneo mutua inconsapevolmente questo modello, compie lo stesso percorso storico: passa dall’essere sostenitore all’essere oltranzista.
L’attivista diventato Ultra va “oltre” la ragionevolezza politica. La causa originaria diventa un semplice pretesto. Il vero protagonista diviene il bisogno di radicalizzazione e l’identità che solo un nemico da odiare può regalare.
Il mercato della rabbia: perché l’indignazione è una merce
Perché, dunque, la ragionevolezza del Pro cede il passo all’intransigenza dell’ Ultra? La risposta non risiede tanto nella natura del conflitto in sé, quanto nella struttura della società che lo osserva. Secondo l’analisi di Eva Illouz, voce autorevole sulla mercificazione delle emozioni, la sfera pubblica è diventata un vasto palcoscenico dove i sentimenti sono esibiti come merce di scambio. Nel “capitalismo emotivo”, la moderazione è invisibile, mentre l’indignazione paga.
Chi mantiene una posizione Pro, propositiva e complessa, rischia l’invisibilità. Al contrario, l’atteggiamento Ultra offre una patente immediata di autenticità morale. La rabbia esibita diventa la prova tangibile del proprio coinvolgimento, trasformando la politica in una performance identitaria. L’importante non è ottenere un risultato, ma dimostrare al proprio pubblico quanto si è puri.
A ciò si aggiunge il livello profondo indagato da Pankaj Mishra ne L’età della rabbia. Le società occidentali, attraversate da un risentimento figlio di promesse di benessere tradite, cercano disperatamente contenitori in cui riversare la frustrazione privata. Le grandi cause internazionali diventano così il palcoscenico perfetto per sfogare un malessere che ha radici altrove. Si innesca la dinamica tribale descritta da Michel Maffesoli. In un mondo liquido, l’odio condiviso verso un’altra tribù diventa il cemento più rapido per sentirsi parte di qualcosa.
Il paradosso dell’inutilità
Il prezzo di questa trasformazione è altissimo, e a pagarlo non sono i tifosi nelle nostre piazze, ma le vittime reali dei conflitti distanti. Quando il dibattito pubblico diventa una “curva”, la complessità geopolitica viene schiacciata dalla binarietà del tifo. Non c’è spazio per la diplomazia, per il compromesso o per la soluzione pragmatica, perché agli occhi dell’Ultra ogni passo verso l’altro è un tradimento della fede.
Il paradosso finale è tragico. Più diventiamo Ultras, meno siamo Pro. Più urliamo la nostra rabbia identitaria, meno siamo utili alla causa che diciamo di sostenere. L’oltranzismo, per sua natura, non costruisce ponti, erige muri. E mentre noi ci sentiamo vivi e “autentici” nel calore della nostra curva, cantando contro il nemico di turno, la realtà, quella che avrebbe bisogno di costruttori e non di tifosi, rimane tragicamente immutata. Tornare ad essere “Pro” significa avere il coraggio di abbandonare l’ebbrezza dell’eccesso per tornare alla fatica, silenziosa e necessaria, della risoluzione.
La via d’uscita: il coraggio di un attivismo positivo
Come si inverte, dunque, questa rotta? Come si smette la divisa dell’Ultra per tornare a vestire i panni del cittadino Pro, ovvero del costruttore? La sociologia suggerisce che la via d’uscita richieda uno sforzo contro intuitivo. Bisogna accettare di essere meno “puri” e più utili.
Uscire dalla logica della curva significa innanzitutto compiere un atto di disarmo emotivo. Se, come insegna la Illouz, l’indignazione è una performance per ottenere approvazione sociale, la soluzione sta nel sottrarsi a questo mercato. Significa smettere di misurare la bontà di una causa dal volume delle urla o dalla ferocia degli slogan. Significa avere il coraggio di “raffreddare” il dibattito, rinunciando alla scarica di adrenalina immediata che regala l’odio verso il nemico, per abbracciare la noia, lenta e faticosa, della mediazione.
In secondo luogo, è necessario sfidare il tribalismo descritto da Maffesoli. L’Ultra vive nella comodità del “bianco e nero”: noi siamo il bene, loro il male. Tornare Pro impone di reintrodurre la complessità. Riconoscere che anche “l’altra curva” ha delle ragioni, dei dolori o delle paure legittime non è un tradimento della propria parte; è l’unica precondizione per risolvere il conflitto. L’Ultra vuole vincere annientando l’altro. Il Proponente (Pro) sa che in politica, come nella convivenza civile, non esiste vittoria duratura che si costruisca sulle macerie dell’interlocutore.
Infine, occorre spostare il focus dall’identità all’utilità. Ogni volta che si sta per lanciare un’invettiva, bisognerebbe porsi una domanda brutale nella sua concretezza: “Questo gesto serve a me per sentirmi migliore, o serve concretamente alle vittime che dico di difendere?”.
Se la risposta riguarda solo il proprio benessere emotivo, si è nel campo degli Ultras. Se riguarda un passo avanti, anche millimetrico, verso una soluzione reale, si è tornati nel campo della politica. Abbandonare l’ebbrezza dell’eccesso per la sobrietà del risultato è l’unica strada possibile. Perché di tifosi che urlano il mondo è pieno, ma sono i costruttori silenziosi che, alla fine, fermano le i mali del mondo.
Ritrovare il senso del “Pro” nell’epoca dell’Ultra
Alla fine di questo percorso, la distinzione tra Pro e Ultra rivela molto più di una sfumatura linguistica. Mostra la traiettoria emotiva e politica di un’epoca in cui l’identità collettiva sembra aver sostituito la responsabilità, e in cui la rabbia ha preso il posto della costruzione. Il modello Ultra appare seducente perché offre appartenenza immediata, riconoscimento rapido e una forma di autenticità esibita. Ma è proprio questa dinamica che svuota l’impegno del suo significato reale.
La società contemporanea, osservata attraverso le lenti di Illouz, Mishra e Maffesoli, assiste a una trasformazione profonda: la politica si sposta dal terreno della soluzione al teatro della performance, e il cittadino rischia di confondere il proprio coinvolgimento emotivo con l’utilità concreta. Quando la causa diventa un pretesto per alimentare la tribù, ogni spazio di dialogo viene eroso, e le vittime reali dei conflitti, quelle che richiederebbero lucidità, mediazione, diplomazia, sono relegati in un fuori campo quasi invisibile.
Ritornare Pro, in questo scenario, non significa rinunciare alla passione, ma orientarla nella giusta via. Significa scegliere la complessità contro la semplificazione tribale, la pazienza contro il bisogno compulsivo di indignarsi, l’utilità contro la gratificazione immediata dell’appartenenza. È un atto controcorrente, quasi impopolare, perché non premia con l’applauso della curva, ma con il lento emergere di un reale cambiamento possibile.
La domanda che rimane sospesa è semplice e decisiva: essere parte della soluzione o parte del rumore?
L’Ultra urla, divide, occupa spazio simbolico; il Pro costruisce, ascolta, cerca faticosamente un varco nella complessità. L’uno si nutre del nemico, l’altro cerca un risultato. E mentre l’Ultra vive dell’ebbrezza di andare oltre, il Pro ha il coraggio di tornare avanti.
La storia non ricorda i cori da stadio, ricorda chi ha costruito ponti. E in un’epoca satura di curve, tornare Pro è forse il gesto più radicale e necessario che un cittadino possa compiere.
