L’omaggio di Pietro Grasso a Borsellino e Falcone
SPECIALE BORSELLINO - Ho conosciuto Giovanni Falcone nell'autunno del 1979: ci trovammo a seguire la medesima indagine sul ritrovamento di un motorino rubato.Ho conosciuto Giovanni Falcone nell’autunno del 1979: ci trovammo a seguire la medesima indagine sul ritrovamento di un motorino rubato. Io ero un giovanissimo sostituto del Tribunale di Palermo, lui un giovane giudice istruttore della stessa procura. Da quell’inchiesta su un fatto così piccolo, quasi insignificante, trassi una grande lezione di professionalità: Falcone la trattò con lo stesso scrupolo e lo stesso impegno con cui si indaga su un omicidio. Riuscì a ricostruire il numero di matricola del motorino, che era stato abraso, ne individuò anche il proprietario, a cui lo restituì, e fece perfino arrestare i ladri. Era una persona che prendeva a cuore anche le cose minime, che non trascurava gli interessi delle vittime dei reati, che manifestava una tenacia e un impegno eccezionali. Mi ero subito reso conto che era diverso da tutti noi, un fuoriclasse. Presto nacque tra noi un rapporto molto più autentico, fatto di stima e di rispetto reciproci.
Mi ricordo ancora il sorrisetto con cui mi guardò quando, nell’autunno del 1985, mi recai da lui e gli dissi: «Sono stato designato giudice a latere del maxiprocesso». Lui, con fare sornione, mi rispose: «Vieni che ti presento il processo». Mi portò in un stanza blindata dove erano custoditi gli atti del processo: quattro pareti interamente occupate da scaffali alti fino al soffitto; 120 faldoni; 400.000 pagine di materiale. In quel momento mi accorsi che Falcone mi stava studiando. Senza perdermi d’animo, gli risposi: “Quale è il primo volume?”. Falcone si aprì in un grande sorriso, aveva capito che non mi ero fatto impressionare dal compito e che volevo mettermi subito al lavoro. Mi sistemai in un piccolo ufficio accanto alla stanza blindata, e cominciai a esaminare un faldone dopo l’altro, prendendo appunti su un bloc-notes.
Dopo qualche giorno Paolo Borsellino passò lì davanti e, intuendo la fatica di quell’immane lavoro, mi regalò la fotocopia delle sue famose rubriche: quaderni compilati con una grafia minuta e ordinata, dove erano annotati i nomi degli imputati, le centinaia di omicidi, i collegamenti tra gli imputati e i riferimenti alle pagine degli interrogatori dei collaboratori di giustizia, supporti indispensabili per muovermi con più rapidità tra le carte. Paolo fu sempre prodigo di chiarimenti e di suggerimenti, a mano a mano che mi addentravo nello studio degli atti, e questo suo atteggiamento paterno mi fece sentire protetto e pronto ad affrontare l’immane fatica che mi aspettava.
Giovanni era fondamentalmente una persona timida, seria, taciturna, che sembrava voler mantenere le distanze. Poteva anche diventare irascibile e aggressivo se il suo interlocutore si mostrava approssimativo, disinformato. Quando si sentiva a proprio agio però – in famiglia, tra amici, scorte – si trasformava: in quei momenti sapeva essere molto affettuoso, simpatico, addirittura spiritoso. La sua qualità più evidente era forse la capacità di soffrire, di sopportare molto più degli altri, senza arrendersi mai. La sua tenacia era proverbiale. Giovanni si rialzava sempre. Era allenato alla lotta ed era restio a manifestare il benché minimo segno di debolezza. Soltanto in poche occasioni, quando era profondamente turbato si mostrava in qualche attimo di umana debolezza, triste, sdegnato, amareggiato. Era costantemente sotto attacco da più fronti, per questo il timore del «passo falso» era la sua ricorrente ossessione. «Occuparsi di indagini di mafia», diceva, «significa procedere su un terreno minato, mai fare un passo prima di essere sicuri di non andare a posare il piede su una mina antiuomo.» E quel 23 maggio ’92 posò il piede su cinquecento chili di esplosivo, che ridussero in condizioni apocalittiche quel tratto di autostrada all’altezza di Capaci. In quell’esplosione, oltre a lui, morirono sua moglie Francesca Morvillo e tre poliziotti della scorta, Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani.
Su una di quelle macchine avrei dovuto esserci anch’io. Da quando mi aveva chiamato a collaborare con lui al ministero della Giustizia, infatti, i rapporti tra me e Giovanni erano diventati molto stretti sotto il profilo sia personale sia professionale, e quindi capitava spesso che, nei fine settimana in cui rientrava a Palermo, lui mi offrisse un passaggio sull’aereo messo a sua disposizione per motivi di sicurezza. Così sarebbe dovuto avvenire anche il 23 maggio, ma il destino aveva deciso diversamente. Per arrivare un giorno prima a Palermo partii con un volo di linea. Conservo ancora il tagliando di quel check-in: volo Alitalia BM 0204, imbarco alle ore 19.40 del 22 maggio 1992, posto 1 L. Avevo prenotato l’ultimo posto disponibile. Allo stesso modo conservo ancora con cura l’accendino d’argento marca Dunhill che, poco prima del suo assassinio, durante un volo Roma-Palermo, Giovanni tirò fuori dal taschino dei pantaloni e mi consegnò, dicendo: «Tienilo, non è un regalo. Ho deciso di smettere di fumare. Sono sicuro che tu me lo custodirai gelosamente. Me lo restituirai se malauguratamente dovessi cambiare idea». Non ne ha avuto il tempo, ma io lo tengo sempre in perfetta efficienza e a portata di mano, come se da un momento all’altro potesse davvero chiedermi di ridarglielo.
Falcone era consapevole di essere il nemico numero uno di Cosa nostra, ma sapeva anche di essere inviso in diversi poli di interessi, anche istituzionali, contrari ai suoi progetti di riforma. In sostanza, era diventato un magistrato scomodo per il suo impegno nel recupero totale della legalità e per aver assunto il ruolo di paladino di una stabile, coerente e concreta strategia globale antimafia. Detestava la logica dell’emergenza. Riteneva che il fenomeno andasse affrontato con interventi decisi e misure drastiche, e attraverso nuove strutture, altamente specializzate, sia della magistratura sia della polizia giudiziaria. Il suo obiettivo era aggredire quella specificità che faceva di Cosa nostra uno dei soggetti del sistema di potere. Ecco perché la sua presenza risultava ingombrante proprio per il potere. Ecco perché i mafiosi non furono i soli a sentirsi danneggiati dalla sua azione passata e presente e insidiati dai suoi progetti per il futuro.
La stessa cosa si può dire per Borsellino, chiamato a raccogliere la pesante e pericolosa eredità del suo amico e collega. I moventi delle stragi di Capaci e via D’Amelio sono complessi e rispondono a una triplice logica: la vendetta, la prevenzione e l’eversione. La vendetta per le attività investigative, per l’azione di rinnovamento legislativo, per il rientro in carcere dei boss condannati nel maxiprocesso; la prevenzione per evitare che il magistrato, come futuro procuratore nazionale antimafia, potesse proseguire le indagini che avevano portato alla luce il connubio tra imprenditoria, politica e mafia, l’eversione per evitare che dopo Tangentopoli si potessero innescare mutamenti radicali della politica italiana.
Il 19 luglio 1992, per gli stessi motivi, toccò a Borsellino, saltato in aria insieme con cinque agenti della scorta a seguito dell’esplosione di un’autobomba posteggiata in via D’Amelio, sotto la casa di sua madre. L’ipotesi che Borsellino potesse proseguire, al posto dell’amico o come procuratore aggiunto di Palermo, le indagini sulla mafia e sui suoi rapporti con l’imprenditoria e la politica era ritenuta un rischio non solo da Cosa nostra, ma anche da quei gruppi che si sentivano minacciati nei loro interessi. Perché Cosa nostra accelerò l’esecuzione della strage di Via d’Amelio? Era la prospettiva che Borsellino diventasse procuratore nazionale antimafia? O il timore di nuove indagini su mafia e appalti? Era l’intenzione di dare un supplemento di intimidazione terroristica, alzando il prezzo della tregua nella «trattativa» già iniziata, che i boss speravano di usare per influire sulle condizioni dei detenuti e limitare i danni delle ammissioni dei pentiti? O ancora, il coacervo di interessi di entità esterne (il connubio tra imprenditoria, massoneria e servizi deviati) che vedevano in pericolo i loro lucrosi affari e gli illeciti profitti? Era il timore che dopo Tangentopoli si verificasse una svolta verso i partiti popolari o verso il disfacimento del sistema partitico? Probabilmente ciascuna e tutte queste motivazioni insieme.
Sono passati 21 anni da quel 1992, nonostante lo sforzo della magistratura alcuni punti su quelle stragi sono ancora oscuri. Pochi giorni fa ci ha lasciato Agnese Borsellino. Mancherà a tutti coloro che l’avevano conosciuta, coraggiosa e discreta, forte d’animo in un corpo minuto. Ma il suo desiderio di verità e giustizia rimane intatto. La sua forza nel cercare, nell’affermare, nel difendere la verità sulla vita e sulla morte di Paolo era e sarà tanto forte da sopravviverle. È morta una persona meravigliosa, ma non morirà con lei la voglia di sapere: per quanto mi sarà possibile, continuerò a tenere accanto la sua determinazione, quella con la quale ha condotto per vent’anni una battaglia di giustizia. Una battaglia che vinceremo.
Articolo di Pietro Grasso tratto da ‘New College‘ del 23 maggio 2013
18 luglio 2013
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