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Fabio Bucciarelli, ”Con il mio reportage ‘Battle to death’ descrivo la cruda realtà del conflitto siriano”

''Si chiama guerra ma in realtà è un vero massacro''. Sono queste le parole che il fotoreporter Fabio Bucciarelli ha utilizzato per descrivere il conflitto in Siria, il soggetto di ''Battle to death''. Con questo reportage si è aggiudicato il Robert Capa Gold Medal e il secondo premio per la categoria Spot News Stories del World Press Photo...
Il fotoreporter ci parla del servizio di guerra con cui ha vinto il Robet Capa Gold Medal Award e il secondo premio per la categoria Spot News Stories del World Press Photo
 
MILANO – “Si chiama guerra ma in realtà è un vero massacro”. Sono queste le parole che il fotoreporter Fabio Bucciarelli  ha utilizzato per descrivere il conflitto in Siria, il soggetto di “Battle to death”. Con questo reportage si è aggiudicato il Robert Capa Gold Medal e il secondo premio per la categoria Spot News Stories del World Press Photo, due riconoscimenti molto ambiti nel campo del fotogiornalismo. Laureato in Ingegneria delle telecomunicazioni, nel 2009 ha abbandonato la carriera da ingegnere per dedicarsi totalmente alla fotografia. Ha seguito da vicino i conflitti in Libia e in Siria. 
 
Il suo progetto "Battle to death" ha ricevuto due riconoscimenti molto importanti, il World Press Photo e il Robert Capa Gold Medal. Che emozione si prova a ricevere due premi così significativi per il mondo del fotogiornalismo?
E’ stata sicuramente un’emozione fortissima vedere il proprio lavoro pluri premiato. Il World Press Photo è un riconoscimento molto ambito per quanto concerne il fotogiornalismo, proprio come  il Robert Capa Gold Medal Award. Ho ritirato recentemente questo premio a New York, ed è stato grande motivo di orgoglio, perché prima di me era stato assegnato soltanto ad un altro giornalista italiano, Paolo Pellegrin. La cosa più importante comunque è che la Siria, grazie a questi premi, è tornata sotto la luce dei riflettori.
  
Ci può descrivere come è nato e come si è sviluppato il progetto?
"Battle to death" è il reportage che ho realizzato tra ottobre e novembre ad Aleppo. Dopo la primavera araba sono andato in Siria passando per la Turchia. Sono arrivato a Gaziantep e da lì attraverso la frontiera ho raggiunto Aleppo. Qui sono rimasto per più di un mese e ho coperto il conflitto cercando di documentarlo in tutti i suoi aspetti: la front line, i feriti, il dolore della gente, i profughi che scappano dalla città, la vita quotidiana sotto le bombe. “Battle to Death” descrive proprio questo, la realtà del conflitto siriano, in particolare ad Aleppo. 
 
Quale aspetto della realtà siriana l’ha colpita maggiormente e ha voluto dunque far emergere con il suo progetto?
Quello che mi ha colpito di più in assoluto è la differenza tra i conflitti. Rispetto a quello libico che ho avuto modo di seguire, quello siriano è molto più cruento. Non essendoci intervento internazionale, siamo entrati ormai nel terzo anno di guerra. Si chiama guerra ma in realtà è un vero massacro,  perché la popolazione, i  syrian army, non hanno la capacità logistica per fronteggiare i mezzi del regime. In questo modo il conflitto è totalmente sbilanciato, e questo implica ovviamente un grandissimo numero di morti tra i civili, donne, bambini, massacrati dai bombardamenti che avvengono a random. 
 
Parlando del World Press Photo, cosa l’ha colpita maggiormente dei lavori premiati?
Sono molto felice perché sono stati premiati molti lavori sulla Siria. Come dicevo, grazie a questi premi, il Pulitzer, il Robert Capa, il World Press Photo, l’interesse per la Siria, che era diminuito negli ultimi mesi, è tornato vivo. Molti premi sono stati vinti da noi che siamo free lance, e non da giornalisti mandati dalle testate. Si tratta di un forte cambiamento nel mondo del fotogiornalismo. Fino a qualche anno fa erano le riviste che mandavano i propri inviati, ora siamo noi giornalisti free lance che partiamo per coprire i servizi dalle zone di guerra, prendendoci ovviamente anche tutti i rischi del mestiere. Ricordiamo che la Siria è un Paese molto pericoloso per i giornalisti, come ci dimostra il caso di Domenico Quirico. 
 
Il fatto di essere giornalisti free lance comporta una maggiore libertà nel lavoro?
C’è sicuramente una maggiore libertà e anche una maggiore messa in gioco. C’è libertà nel momento di produzione nell’immagine, ma molta più insicurezza al momento della vendita. 
 
7 maggio 2013
 
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