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La fotografia come indagine sociale nel lavoro di Uliano Lucas

Dalla formazione della concezione estetica alla necessità di documentare le trasformazioni della società italiana, in un contesto di indipendenza rispetto al sistema informativo, il fotoreporter Uliano Lucas...
Il fotoreporter spiega perché mentre la tecnologia del digitale e le potenzialità della rete cambiano profondamente il rapporto con l’immagine, sia necessario riportare la fotografia d’informazione alla realtà

MILANO – Dalla formazione della concezione estetica alla necessità di documentare le trasformazioni della società italiana, in un contesto di indipendenza rispetto al sistema informativo, il fotoreporter Uliano Lucas ci spiega, attraverso un’intervista, la sua attività e le sue scelte professionali. Emerge chiaro il valore della fotografia che, per Lucas, deve in prima istanza comunicare, rappresentare e denunciare la realtà, lontano dai condizionamenti delle dimensioni sociali e politiche nelle quali sono inevitabilmente coinvolte testate e gruppi editoriali.

Negli anni della sua prima giovinezza, in che modo è andata definendosi la sua concezione estetica? Quali erano le sue passioni e quando ha iniziato a dedicarsi in modo esclusivo alla fotografia?
Un ruolo fondamentale l’ha avuto l’incontro con il mondo degli artisti e intellettuali che frequentavano Brera e il bar Jamaica, alla fine degli anni ’50. Lì ho avuto modo di ragionare sull’arte, di guardare dipinti e fotografie. Mi perdevo ad ascoltare  discussioni interminabili sulle avanguardie storiche così come su quelle recenti: il gruppo Zero e Cobra, Vasarely e Picabia… Sono state riflessioni importanti per la formazione anche di una mia estetica, negli anni in cui iniziavo a maturare l’idea di fare fotografia. Tuttavia da sempre sono stato un ragazzo curioso, un autodidatta che leggeva di tutto e amava moltissimo il cinema,  e anche gli anni che ho passato, prima del Jamaica, al Convito della Rinascita, la scuola nata per far finire gli studi ai partigiani o agli internati nei campi di concentramento, sono stati importanti. C’erano i corsi di grafica di Albe Steiner, e c’era un vecchio custode che mi ha fatto scoprire la rivista Kino, il cinema ungherese e la fotografia…
Dedicarsi totalmente alla fotografia è stato per me un processo lento, ero allora incuriosito e attratto da altre forme di espressione. Comunque usavo sporadicamente una macchina fotografica, la Rolleiflex 6×6 e, via via, nel corso degli anni, ho avuto la consapevolezza che il reportage fosse il mio futuro. È stata, direi, la scelta di una professione, ma soprattutto una scelta di vita.

Si può dire che già negli anni Settanta lei abbia definito come dovesse essere la sua fotografia: documentaria, libera, sociale. Ci può descrivere quali sono stati in quel periodo i suoi principali soggetti di interesse e in quale modo ha deciso di raccontarli?
Direi che la svolta è stato il ’68, un movimento antiautoritario che mi ha coinvolto e mi ha chiamato a raccontare le sue rivendicazioni, le sue idee, i suoi protagonisti. E’ stato un movimento che ha segnato più di una generazione di fotografi, sollecitando l’impegno in una fotografia di testimonianza, di documentazione civile, con nuovi  linguaggi, nuove scelte narrative per raccontare una società che stava cambiando velocemente e profondamente. Il mondo del lavoro, le proteste sindacali, ma anche le trasformazioni nel territorio e nella società, i nuovi orizzonti di desiderio e di vita… da allora ho cercato di raccontare il disagio, l’emarginazione, le contraddizioni della società, ma senza mai cadere nell’ideologico, cercando di leggere e interpretare la realtà. Milano, le strade, le persone, la quotidianità della vita, le trasformazioni del costume, della morale, della famiglia, l’irrompere della musica nel mondo giovanile, i volti degli amici, gli incontri, la vita nei caffè, le immense periferie urbane e le loro trasformazioni, ecco le mie prime fotografie, vivendo nel frattempo la vita di tutti i giorni, con gli amici, artisti, nullafacenti, musicisti, avventurieri, affascinanti raccontatori di storie davanti ad un bicchiere di vino. Ho usato la macchina fotografica per indagare e capire le sfaccettate realtà che mi circondavano e che mi incuriosivano.  È stato un duro apprendistato che poi ha dato i suoi frutti.

Da fotoreporter ha deciso di mantenere una propria libertà lavorativa, rimanendo indipendente rispetto al sistema dell’informazione. Cosa ha comportato questo per lei? Quale linea di condotta ha deciso di seguire?
Ho capito subito, fin da giovane, che per essere libero e felice e appagato nel raccontare con le mie immagini una realtà non manipolata, dovevo gestire il mio tempo e le mie scelte. Ho sempre avuto una chiara consapevolezza della funzione sociale della fotografia e della figura del fotoreporter, così come dei meccanismi del sistema della comunicazione nella società in cui vivevo, una società a economia capitalista, e così per non subire condizionamenti, per poter raccontare quello che volevo, ho deciso di fare il free-lance e di stare ai margini di un sistema dell’informazione che, nel suo insieme, faceva scelte molto distanti dalle mie. Ho lavorato solo con giornali in cui mi rispecchiavo culturalmente e politicamente. Oggi si direbbe che ho vissuto da “precario” tutta la vita, rimettendomi sempre in discussione e inventandomi nuovi lavori e progetti, ma per fortuna in una rete di rapporti, di sinergie culturali e amicali, che mi permettano di portare avanti racconti, indagini ed esperienze.  

Fin dall’inizio della sua professione ha sempre portato avanti anche un’attività di studio sul medium fotografico. Quali sono state le sue principali linee di riflessione?

E’ molto semplice. La riflessione è stata quella sul sistema della comunicazione, quella riflessione che mi ha portato a fare, sul versante dell’attività di reporter, la scelta dell’indipendenza. Come dicevo, ho sempre avuto ben chiaro il ruolo della committenza, il peso delle scelte delle testate e degli editori nell’uso dell’immagine e la loro dimensione sociale e politica. Ho sempre ragionato sul sistema dei media, sul ruolo che hanno in una società delle immagini nel condizionare la conoscenza, l’interpretazione della realtà dell’opinione pubblica. Per cui se con le mie foto ho cercato di mostrare altre realtà, altre modalità di racconto, così ho pubblicato libri e scritti su autori che hanno fatto altrettanto, anche come direttore delle immagini de "L’Illustrazione italiana", ho cercato di proporre percorsi in un fotogiornalismo italiano diverso, che la grande stampa e il sistema della cultura lasciava ai margini, di rompere gli stereotipi visivi e narrativi che la stampa a larga tiratura imponeva. E ho ragionato su un’informazione negata su quello che la grande stampa non diceva e sul perché non lo diceva; il che voleva anche dire ragionare sulle scelte politiche e culturali del paese, su quello che il paese sceglieva di essere. Ho ragionato sulla fotografia come linguaggio, cercando di far capire, in un momento in cui questa consapevolezza non era ancora matura, l’importanza delle scelte grafiche, della messa in pagine delle foto, e anche dei diversi registri linguistici della fotografia.
Le domande che mi sono posto su mio ruolo all’interno del sistema mi hanno portato alla decisione di non delegare ad altri la mia scelta di vita e la mia storia, di essere libero di esprimermi, facendo sì che il mio modo di raccontare la realtà non venisse né condizionato né tantomeno stravolto dall’interesse di parte di una committenza. E tutto questo vale anche per tutti i miei colleghi legati alla mia stessa visione culturale e politica. Ho cercato di raccontare in diverse pubblicazioni il percorso del nostro fotogiornalismo pieno di contraddizioni, fuori dai miti della carta patinata. Dal primo libro “L’informazione negata” del 1981, sono stati molti gli articoli, i dibattiti e la pubblicazione di altri volumi e altri saggi. Materiali “politici” per far conoscere e far discutere, ma, ahimè, le risposte sono state poche e devo dire, molto confuse e assai poco motivate e poco inclini a sviluppare finalmente un discorso critico e chiarificatore. Il conformismo e la retorica nella fotografia continua a regnare.

Sulla base della sua esperienza, quale pensa che sia il ruolo odierno dell’immagine nel mondo contemporaneo? Qual è la richiesta da parte degli utenti e cosa è diventato oggi il fare fotografia?
Credo che siamo in un momento di passaggio molto complesso e molto affascinante in cui da una parte la tecnologia del digitale, dall’altra i mezzi di comunicazione della rete, stanno cambiando profondamente il rapporto con l’immagine. Eppure i nodi di fondo legati alla natura del mezzo fotografico e del sistema dell’informazione sono rimasti gli stessi. E oggi più che mai, in un’epoca di sovrapproduzione di immagini e di grandi monopoli nella distribuzione delle fotografie giornalistiche, bisogna avere consapevolezza dei nessi tra sistema dell’informazione, potere  economico e potere politico e fare uno sforzo per riportare la fotografia d’informazione alla realtà, tornare a guardare prima con gli occhi che con l’apparecchio fotografico, scoprire intorno a noi la complessità della vita, della società, capirla e solo dopo raccontarla. Io credo che la fotografia oggi soffra di un eccesso di “cultura visiva”, laddove in Italia per tanti anni proprio questa faceva difetto. Il gioco dei rimandi fra linguaggi visivi – dal cinema all’arte alla video arte alla fotografia – che da un lato è senz’altro ammaliante, ci sta facendo allontanare da quel dato referenziale che è fondamento non certo unico ma centrale della natura dell’immagine fotografica. Si pensi alla polemica sulla foto ritoccata che ha vinto il World Press Photo quest’anno. Oggi molte foto sono valide sul piano estetico, artistico, ma non restituiscono più la vita, c’è uno scollamento profondo tra la realtà e una fotografia che tutto sommato, stiamo parlando di fotogiornalismo, avrebbe semplicemente il compito di raccontarla… E i più non sembrano accorgersene, o meglio non se ne rammaricano.

19 marzo 2013

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