“Viaggio a Montevideo” è uno dei testi più emblematici dei “Canti Orfici” (1914), l’unico libro compiuto di Dino Campana, poeta visionario ed errante della letteratura italiana.
Questa raccolta non è un semplice insieme di liriche: è un itinerario mentale, un viaggio nell’inconscio e nello spazio, tra paesaggi reali e allucinati. In essa si intrecciano esperienze vissute e proiezioni oniriche, ricordi e illusioni.
Un errare poetico nell’altrove
La poesia nasce dall’eco di viaggi reali che Campana compì tra Europa e Sud America, viaggi inquieti, segnati da fughe improvvise e dalla precarietà economica e psicologica che lo accompagnò sempre.
Leggiamola insieme:
“Viaggio a Montevideo” (1914) di Dino Campana
Io vidi dal ponte della nave
I colli di Spagna
Svanire, nel verde
Dentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celando
Come una melodia:D’ignota scena fanciulla sola
Come una melodia
Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola…..
Illanguidiva la sera celeste sul mare:
Pure i dorati silenzii ad ora ad ora dell’ale
Varcaron lentamente in un azzurreggiare:….Lontani tinti dei varii colori
Dai più lontani silenzii
Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d’oro: la nave
Già cieca varcando battendo la tenebra
Coi nostri naufraghi cuori
Battendo la tenebra l’ale celeste sul mare. Ma un giorno
Salirono sopra la nave le gravi matrone di SpagnaDa gli occhi torbidi e angelici
Dai seni gravidi di vertigine.
Quando In una baia profonda di un’isola equatoriale
In una baia tranquilla e profonda assai più del cielo notturno
Noi vedemmo sorgere nella luce incantataUna bianca città addormentata
Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti
Nel soffio torbido dell’equatore: finchè
Dopo molte grida e molte ombre di un paese ignoto,
Dopo molto cigolìo di catene e molto acceso fervore
Noi lasciammo la città equatoriale
Verso l’inquieto mare notturno.Andavamo andavamo, per giorni e per giorni: le navi
Gravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano lente:
Sì presso di sul cassero a noi ne appariva bronzina
Una fanciulla della razza nuova,
Occhi lucenti e le vesti al vento! ed ecco: selvaggia a la fine di un giorno che apparve
La riva selvaggia là giù sopra la sconfinata marina:E vidi come cavalle
Vertiginose che si scioglievano le dune
Verso la prateria senza fine
Deserta senza le case umaneE noi volgemmo fuggendo le dune che apparve
Su un mare giallo de la portentosa dovizia del fiume,
Del continente nuovo la capitale marina.
Limpido fresco ed elettrico era il lume
Della sera e là le alte case parevan deserteLaggiù sul mar del pirata
De la città abbandonata
Tra il mare giallo e le dune.
Il viaggio come vertigine
Leggere “Viaggio a Montevideo” significa entrare in una dimensione che non è solo geografica. Non è cronaca, non è pura descrizione: è una fuga interiore, una vertigine sensoriale. Campana sembra voler comunicare il senso dell’altrove come promessa e come minaccia.
Nei suoi versi il viaggio non è pacificato, ma carico di tensione: tra la luce incantata delle baie equatoriali e il buio che incombe, tra il fascino di corpi “dai seni gravidi di vertigine” e la consapevolezza della solitudine che accompagna ogni approdo.
L’intenzione è chiara: restituire l’esperienza del mondo come dissolvenza e visione, far sentire il lettore sulla soglia di una percezione febbrile, dove ogni immagine è bellezza e disorientamento. In questo, Campana è modernissimo: anticipa un’idea di poesia come cinema interiore, fatto di inquadrature mobili, di bagliori e ombre che si alternano senza posa.
Dall’inizio alla fine, il viaggio di Campana in una poesia
L’incipit è un addio: “Io vidi dal ponte della nave / i colli di Spagna svanire”.
L’immagine dei colli che svaniscono nel crepuscolo è una dissolvenza dolente: dietro di sé, l’Europa; davanti, il sogno sudamericano. È il momento del distacco, che Campana colora di oro e di verde, mescolando paesaggio reale e visione musicale “come una melodia”.
“Illanguidiva la sera celeste sul mare… / …Varcaron lentamente in un azzurreggiare”: qui il ritmo si fa liquido. La sera “illanguidiva”: verbo morbido, che trasforma il tempo in un corpo che si consuma. Le immagini degli uccelli dorati che varcano i silenzi sono quasi simboliste: presenze rarefatte che attraversano uno spazio irreale.
“Coi nostri naufraghi cuori / battendo la tenebra l’ale celeste sul mare”. Uno dei momenti più potenti: i cuori sono “naufraghi” già prima del naufragio. È la condizione esistenziale del poeta: in viaggio, ma già perduto, come lo sarà nella sua vita errabonda, sempre in cerca di un approdo che non arriverà.
“Gravi matrone di Spagna / dagli occhi torbidi e angelici”.
Improvviso, il registro muta: dal simbolico al sensuale. Il corpo femminile appare come forza doppia, “torbida e angelica”, segno di un’eros inquieto che percorre tutta la scrittura campaniana.
“E vidi come cavalle / vertiginose che si scioglievano le dune”.
Il paesaggio finale è apocalittico: le dune che corrono come cavalle verso la prateria senza fine danno al Nuovo Mondo un volto selvaggio, primordiale. La capitale marina, che dovrebbe segnare un arrivo, appare deserta: “tra il mare giallo e le dune”. È la parabola campaniana: il viaggio non porta salvezza, ma un’altra soglia di smarrimento.
Dino Campana: vita errante, poesia e morte
Dino Campana è tra le figure più tormentate del Novecento. Nato a Marradi nel 1885, visse un’esistenza errabonda, fatta di fughe, lavori occasionali, ricoveri psichiatrici.
I “Canti Orfici”, pubblicati a sue spese nel 1914, restano la sua unica opera compiuta: un libro visionario, dove si mescolano esperienze di viaggio, memorie e allucinazioni. Nelle sue pagine, come in “Viaggio a Montevideo”, il mondo appare come un enigma: una bellezza accecante che sfiora la vertigine.
Dopo anni di instabilità, fu internato nel manicomio di Castel Pulci, dove morì a soli 47 anni.