Ultimo canto (1892) di Giovanni Pascoli: l’amore alla fine è solo lacrime al cuore

8 Novembre 2025

Scopri il meraviglioso paesaggio poetico di "Ultimo Canto" di Giovanni Pascoli, il manifesto consapevole che tutto è destinato a finire.

Ultimo canto (1892) di Giovanni Pascoli: l'amore alla fine è solo lacrime al cuore

Ultimo canto di Giovanni Pascoli è una poesia che mette in scena l’animo del poeta attraverso un’immagine autunnale in cui tutto sembra dirigersi verso il tramonto della giornata, della stagione, della vita. È un paesaggio che riflette l’interiorità, un orizzonte in cui anche l’idea di un amore che doveva regalare gioia e felicità finisce invece per offrire solo lacrime e tristezza.

Il poeta di San Mauro di Romagna, come da suo stile, riesce a fotografare il momento e a metterlo in scena scorrendo le parole come fossero immagini, per offrire al lettore quella malinconia tipica di un tramonto d’autunno, in cui tutto sembra volgere verso il buio, verso la fine.

Ultimo canto è il canto sedicesimo, all’interno della sezione In Campagna, della raccolta di poesie Myricae di Giovanni Pascoli. la poesia molto probabilmente fu inserita nella seconda edizione del volume che fu pubblicato da Raffaello Giusti Editore-Libraio, Livorno 1892.

Leggiamo questa breve ma intensa poesia di Giovanni Pascoli per respirarne l’atmosfera e scoprire il significato.

Ultimo canto di Giovanni Pascoli

Solo quel campo, dove io volgo lento
l’occhio, biondeggia di pannocchie ancora,
e il solicello vi si trascolora.

Fragile passa fra’ cartocci il vento:
uno stormo di passeri s’invola:
nel cielo è un gran pallore di vïola.

Canta una sfogliatrice a piena gola:
Amor comincia con canti e con suoni
e poi finisce con lacrime al cuore.

Un attimo di resistenza che si piega al dolore di ogni fine

Ultimo canto è una poesia di Giovanni Pascoli che offre l’immagine di un mondo che resiste per un istante prima di piegarsi al destino del tempo.

Quel campo che “biondeggia ancora”, il “solicello” che si scolora, il volo improvviso dei passeri: ogni dettaglio è una lotta sottile tra la vita e la sua fine.

La natura diventa specchio dell’anima, mentre il canto della sfogliatrice, semplice, umana, universale, grida a squarcia gola la verità che attraversa i secoli. Ogni amore, come ogni stagione, nasce nella gioia e muore nella malinconia.

Ciò che colpisce di Pascoli, è la consapevolezza della fine, non c’è più disperazione, ma solo la presa di coscienza che la vita non è gioia, ma tristezzza.

L’ultimo canto non è un grido, ma un soffio. È la resa dolce e luminosa di chi ha compreso che anche il dolore può essere canto, che ogni fine contiene in sé il germoglio di un ricordo, e che la malinconia è solo la forma più umile dell’eternità.

Tutto è destinato a tramontare: l’estetica della fine

Il campo è l’ultimo spazio vitale rimasto, l’unico luogo dove la vita resiste.

Il verbo volgere lento l’occhio suggerisce la stanchezza del vivere, lo sguardo meditativo di chi osserva non solo il paesaggio, ma la propria interiorità. Quel campo che “biondeggia ancora” è la metafora della speranza residua, della luce che non vuole spegnersi del tutto.

Pascoli sembra voler trattenere ciò che fugge: l’estate, la giovinezza, l’amore. Ma sa che nulla può durare. L’avverbio “ancora” racchiude la tenerezza di chi si aggrappa al tempo mentre il tempo lo abbandona.

Il “solicello”, diminutivo che addolcisce l’immagine del sole, perde colore, si “trascolora”. In un solo verso, Pascoli disegna la malinconia del tramonto.

È la luce della vita che sbiadisce lentamente, la dolce agonia della natura che accompagna la consapevolezza del poeta. Anche la bellezza ha una fine, ma proprio nel suo svanire diventa più preziosa.

Il vento che attraversa i cartocci, i resti delle pannocchie, è il soffio del tempo che scorre e porta via ogni cosa.

La parola “fragile” è centrale. La fragilità non è solo fisica, ma interiore. È la condizione umana stessa, esposta al mutamento e al dolore.

Il vento, in Pascoli, non distrugge, ma accarezza e consuma, come fa la memoria. È il respiro della vita che continua, ma svuotato della forza del principio, come una carezza che resta senza corpo.

L’immagine dello stormo che si alza in volo segna il momento della separazione.

È la vita che sfugge, la giovinezza che si disperde, l’amore che si dissolve nel cielo “pallido di viola”. Il colore viola, simbolo di soglia tra giorno e notte, rappresenta la sospensione, il momento in cui nulla è ancora morto ma nulla è più vivo.

Pascoli coglie l’essenza del crepuscolo, la bellezza dell’attimo in cui la luce si arrende ma non del tutto. È l’estetica della fine, che in lui diventa poesia della resistenza.

Dopo il silenzio del paesaggio, entra una voce umana.

La sfogliatrice è una figura semplice, popolare, ma la sua voce riempie l’intero orizzonte. La vita continua nel canto del lavoro quotidiano.

In mezzo al tramonto e al vento, la sua voce è ciò che resta. È l’umanità che non smette di cantare, anche quando il cuore è colmo di lacrime.

Il proverbio cantato dalla sfogliatrice racchiude la verità universale dell’esistenza. Ogni inizio porta con sé la promessa della fine.

L’amore, come ogni forma di vita, è musica all’inizio e dolore alla conclusione. Ma Pascoli non lo dice con amarezza, lo esprime con dolcezza consapevole. Il suo tono non è di ribellione, ma di accettazione.

È come se il poeta volesse ricordarci che il dolore è la traccia più autentica dell’amore, che le lacrime sono la forma ultima del sentimento, la sua verità più profonda.

L’ultimo canto come resa luminosa

Ciò che colpisce in Giovanni Pascoli è proprio la sua consapevolezza. Nelle sue poesie non c’è più disperazione, solo la certezza che la vita non è gioia ma malinconia, e che la malinconia è la forma più pura della memoria.

L’ultimo canto non è un grido, ma un soffio. È la resa dolce di chi ha compreso che anche il dolore può essere canto, che ogni fine custodisce un seme di eternità.

La poesia si chiude come un respiro che si spegne, ma che nel suo svanire lascia luce. E forse è questo il dono di Pascoli: insegnarci a guardare la fine senza paura, perché nella fine, come nella poesia, c’è ancora vita, c’è ancora amore, c’è ancora canto.

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