“Terra, vale!” di Gabriele D’Annunzio: l’addio alla terra e l’ebbrezza del mare

2 Settembre 2025

In "Terra, vale!" D’Annunzio celebra la metamorfosi e il superuomo, fondendo il mito di Glauco al mare infinito. Scopri nell'articolo l’ombra retorica fascista.

“Terra, vale!” di Gabriele D’Annunzio: l’addio alla terra e l’ebbrezza del mare

La poesia “Terra, vale!” di Gabriele D’Annunzio si trova nell’“Alcyone” e prende il titolo da un passo de “Le metamorfosi” di Ovidio.

Il rito di passaggio

Se in Ovidio è il grido di Glauco — il pescatore che, prima di inabissarsi e trasformarsi in divinità marina, saluta la terra con un definitivo addio (terra, vale! /addio, terra!), per D’Annunzio è una soglia, un rito di passaggio: “Tutto il Cielo precipita nel Mare” (V. 1), abbandona la sicurezza del mondo terreno per consegnarsi all’abisso marino, luogo di metamorfosi e di pericolo.

Un gesto che attraversa i secoli e si trasforma in una poesia dove il cielo e il mare si confondono, e la tempesta diventa immagine di energia primordiale (V. 8).

Il superuomo

Ma non parliamo solo del cielo e del mare, non ci sono soltanto luce e gorghi (V. 7-23) in questa poesia. La metamorfosi dannunziana inganna, apparendo di primo acchito naturalistica e mitologica, ma manipola “alghe livide, fuchi, ferrugini / nere ulve di radici multiformi” (V. 12-13) come un Dio creatore. E, attraverso l’identificazione con Glauco, il pescatore che abbandona la terra per rinascere come dio marino, il poeta immagina per sé una trasformazione radicale: non più semplice mortale, ma creatura capace di fondersi con le forze primordiali del cosmo.

In questo abbandono al mare, simbolo di energia infinita e indomabile, si riflette il desiderio di oltrepassare i confini della vita comune, per attingere a una dimensione eroica e divina. Il superuomo dannunziano non è un conquistatore armato, ma un essere che osa rischiare la dissoluzione pur di rinascere più grande, più libero, più potente — da qui Glauco in mare —: un artista che fa della propria esistenza un mito.

Gabriele D’Annunzio e il superuomo frainteso

È proprio da questa estetica della forza e della metamorfosi che il fascismo ha attinto per farne un poeta-simbolo del regime: l’esaltazione del rischio e del gesto eroico, la teatralità dell’azione — dall’Impresa di Fiume al Volo su Vienna —, il mito dell’uomo capace di guidare con il proprio carisma: tutti elementi che Mussolini trasformò in retorica del suo tempo.

In realtà, D’Annunzio non fu mai davvero parte organica del fascismo — negli anni ‘20 si ritirò al Vittoriale, lontano dalle vicende politiche — ma fu adottato come padre spirituale e precursore. Così, il suo superuomo, nato come aspirazione estetica ed esistenziale, fu strumentalizzato come modello dell’uomo nuovo fascista: virile, guerriero, pronto a immolarsi per la patria.

“Terra, vale!” di Gabriele D’Annunzio

Tutto il Cielo precipita nel Mare.
S’intenebrano i liti e si fan cavi,
talami dell’Eumenidi avernali.

Nubi opache sul limite marino
alzano in contro mura di basalte.
Solo tra le due notti il Mar risplende.
Presa e constretta negli intorti gorghi,
come una preda pallida, è la luce.
La tempesta ha divelto con furore
i pascoli nettunii dalle salse
valli ove agguatano i ritrosi mostri.
Alghe livide, fuchi ferrugigni,
nere ulve di radici multiformi
fanno grande alla morta foce ingombro,
natante prato cui nessuna greggia
morderà, calcherà nessun pastore.
Virtù si cela forse nelle fibre
sterili, che trasmuta il petto umano?
O mito del mortale fatto nume
cerulo, rinnovèllati nel mio
desiderio del flutto infaticato!
Tutto il Cielo precipita nel Mare.
Preda è la luce dei viventi gorghi,
forse immolata per l’eternità.

Versi importanti

“Tutto il Cielo precipita nel Mare. / S’intenebrano i liti e si fan cavi, / talami dell’Eumenidi avernali.”

La poesia si apre con una scena apocalittica, in cui il cielo cade dentro l’oceano e le spiagge diventano caverne infernali, talami delle Furie. La natura appare come forza ostile, un organismo oscuro che divora e inghiotte: D’Annunzio descrive con minuzia il paesaggio.

Le nubi opache si ergono come mura di basalto, il mare risplende per un attimo tra due notti, e la luce — simbolo fragile della vita — è presa e trascinata nei vortici, “come una preda pallida” (V. 8).

“La tempesta ha divelto con furore / i pascoli nettunii dalle salse valli / ove agguatano i ritrosi mostri.”

La seconda parte del componimento ci presenta un paesaggio pastorale in tempesta un “prato natante” (V. 15) di alghe, sargassi e ulve che si muove senza pastore. I riferimenti mitici si intrecciano con immagini naturalistiche precise (le alghe livide, i fuchi ferrugigni, le ulve nere). È un mondo senza guida, senza controllo, dove la vita vegetale e animale si intreccia in forme mostruose e primitive. Persino i mostri marini “ritrosi” evocano creature arcaiche, simbolo dell’ignoto che abita le profondità. Un mondo di assoluta libertà, ma anche di creazione, dove mito e desiderio di metamorfosi si fondono.

“O mito del mortale fatto nume / cerulo, rinnovellati nel mio / desiderio del flutto infaticato!”

D’Annunzio si rivolge direttamente al mito di Glauco, il pescatore che diventa dio marino. In questo richiamo c’è tutto il desiderio dannunziano di metamorfosi: non accontentarsi della vita mortale, ma aspirare a un’esistenza superiore, fusa con le forze primordiali della natura. Il mare diventa simbolo di questa tensione: una distesa infinita, crudele e al tempo stesso rigenerante, in cui il poeta anela a perdersi e rinascere.

La luce come vittima ed eredità

La poesia si chiude riprendendo: “Tutto il Cielo precipita nel Mare”; e continua “Preda è la luce dei viventi gorghi, / forse immolata per l’eternità”.

È così che D’Annunzio termina il canto, tra cielo e mare, nella fusione del mito che è anche la nascita eterna del superuomo: una luce fragile, vittima, ma anche sacrificio necessario per la rinascita di una continuità.

“Terra, vale!” è anche un invito a riconoscere che ogni rinascita passa attraverso una perdita: come Glauco, dobbiamo salutare qualcosa della nostra terra per inoltrarci nel mare delle trasformazioni.

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