La poesia “Talidomide” di Sylvia Plath si compone di versi estremi che trasformano la maternità — da lei spesso citata direttamente o indirettamente con le figure infantili — in un incubo, evocando il farmaco omonimo. Un testo che parla di colpa, fragilità e della linea sottile tra vita e distruzione.
Un farmaco diventato simbolo
Il titolo della poesia non è dunque casuale: negli anni Cinquanta, il Talidomide — prodotto dalla casa farmaceutica tedesca Chemie Grünenthal — fu prescritto alle gestanti contro la depressione e contro la nausea da gravidanza.
Era una promessa di sollievo per le madri e di certo anche per i padri, che non avrebbero avuto in casa le cosiddette mogli isteriche; tuttavia, si rivelò un farmaco disastroso: il principio attivo aveva effetti teratogeni e causava gravi malformazioni nei feti.
Dal 1957 al 1961, prima che il farmaco fosse ritirato, nacquero migliaia di bambini con arti malformati, organi compromessi, sordità o cecità. Il caso esplose come una delle più grandi tragedie mediche del Novecento e Sylvia Plath, sempre molto toccata dagli argomenti del suo presente — e in special modo dal femminile e dai più innocenti — colse nel farmaco una minaccia tangibile alla maternità e alla vita.
“Talidomide” (1962) di Sylvia Plath
(Inglese)
O half moon –
Half-brain, luminosity –
Negro, masked like a white,
Your dark
Amputations crawl and appal –
Spidery, unsafe.
What glove
What leatheriness
Has protected
Me from that shadow –
The indelible buds,
Knuckles at shoulder-blades, the
Faces that Shove into being, dragging
The lopped Blood-caul of absences.
All night I carpenter
A space for the thing I am given,
A love
Of two wet eyes and a screech.
White spit
Of indifference!
The dark fruits revolve and fall.
The glass cracks across,
The image
Flees and aborts like dropped mercury.(Italiano)
O mezza luna –
Mezzo cervello, luminosità –
Negro, mascherato da bianco,
Le tue buie
Amputazioni brulicano e spaventano –
Ragnose, infide.
Quale guanto
Quale coriacità
Ha protetto
Me da quell’ombra –
Gli indelebili bocci,
Giunture delle scapole, le
Facce che
Si fanno largo all’essere, tirando
Via con sé il penzolante
Amnio-sangue delle assenze.
Tutta la notte fabbrico
Uno spazio alla cosa che mi è data,
Un amore
Di due occhi umidi e uno strillo.
Un bianco sputo
D’indifferenza!
I frutti oscuri volvono e periscono.
Il cristallo s’incrina,
L’immagine
Scompare e abortisce come mercurio in mille
gocce.
“Talidomide” non è una condanna della maternità, bensì un grido di verità: essere madre significa vivere sull’orlo. Significa fabbricare “uno spazio alla cosa che mi è data”, ma senza certezze: “Il cristallo s’incrina”, “l’immagine abortisce”. È il crollo dell’illusione di perfezione.
Il farmaco diventa metafora della frattura: ciò che dovrebbe proteggere, tradisce. Così il corpo, celebrato dalla cultura come sacro, diventa sede di paura, di metamorfosi mostruose. Plath infrange i tabù del suo tempo, mostrando il lato notturno dell’istinto materno, la colpa segreta, il rifiuto, la sensazione di essere coriacea eppure vulnerabile.
“O mezza luna – / Mezzo cervello, luminosità -”
Quella luna è il ventre materno che sporge dal corpo, un’immagine di dolcezza, anche se associata a un “mezzo cervello”. Questo appare più alienante e tuttavia realistico: il bambino sta crescendo, non ha un cervello intero.
“Le tue buie / Amputazioni brulicano e spaventano – / Ragnose, infide.”
Qui la paura si fa corpo: le malformazioni evocate dal Talidomide diventano simbolo dell’angoscia profonda di Sylvia Plath. Ma “amputazioni” è anche metafora: essere madre significa perdere pezzi di sé, rinunciare a spazi di libertà.
“Gli indelebili bocci, / Giunture delle scapole, le / Facce che / Si fanno largo all’essere”
L’immagine della nascita è cruda: i bambini non sono angeli ma corpi che lacerano il grembo per esistere. L’amore materno è qui fuso con il dolore, con il sangue: “Amnio-sangue delle assenze” dice l’ossimoro tra vita e vuoto.
“Il cristallo s’incrina, / L’immagine / Scompare e abortisce come mercurio in mille / gocce.”
Il sogno materno si frantuma: la felicità è fragile come cristallo, la vita sfugge come mercurio, impossibile da ricomporre. Il finale è la perfetta metafora della precarietà dell’esistenza e dell’impossibilità di un ideale integro.
Sylvia Plath: tra desiderio di maternità e baratro
Plath voleva essere madre. Nei diari parla spesso del desiderio di una vita piena: scrittura, matrimonio, figli.
Quando nacquero Frieda (1960) e Nicholas (1962), provò una profonda felicità, ma anche la pressione di un ruolo nuovo e soffocante. Il 1962 è l’anno delle contraddizioni esplosive: la separazione da Ted Hughes, la solitudine nella casa di Londra, due bambini da accudire e un lavoro creativo febbrile. Scriveva di notte, dopo averli messi a letto, in una cucina gelida.
In questa condizione nascono le poesie più violente di “Ariel”. “Talidomide” è figlia di questa esperienza: non è un rifiuto dei suoi bambini, ma la confessione di un’angoscia che la società non voleva ammettere. Plath osa dire ciò che tutte le retoriche nascondono: che la maternità non è solo gioia, ma fatica, depressione e paura, e che l’amore può convivere con il desiderio di fuga.
Una poesia che sfida i tabù ancora oggi
“Talidomide” è una poesia coraggiosa, perché smonta il mito materno idealizzato, così come tante donne fanno oggi in video su TikTok e YouTube, cercando di portare la loro esperienza post e pre-parto.
Sylvia Plath non si limita a rappresentare la fragilità femminile: parla a chiunque si senta imprigionato da un ruolo, dal corpo, dal destino. La sua penna è spietata: ogni immagine è un colpo inferto alla superficie delle convenzioni, ma nella violenza dei versi c’è anche la testimonianza di un amore vero, che non si arrende al farmaco e alla depressione.