“Sto qui” è una poesia breve, ma profondissima, scritta da Patrizia Cavalli. Come un pensiero che balza in mente tra un gesto e l’altro, questa lirica sembra aprire una finestra segreta sull’identità, sul ruolo che recitiamo nella vita e sul desiderio struggente di esistere, finalmente, senza dover dimostrare nulla.
“Sto qui” di Patrizia Cavalli
Sto qui ci sono e faccio la mia parte
Ma io neanche so cos’è questa mia parteSe lo sapessi
potrei almeno uscire dalla parte
e poi sciolta da me
godermela in disparte.
Il significato di questa poesia
Dove leggere “Sto qui”
“Sto qui” è tratta da Pigre divinità e pigra sorte, una raccolta che sussurra, anziché urlare. Un libro abitato da presenze invisibili, da una voce che si muove con passo lieve tra le stanze dell’esistenza. Qui, Patrizia Cavalli si interroga sull’amore, sull’identità, sul tempo e sul corpo con una scrittura che pare sfiorare le cose, per poi penetrarle profondamente.
In questa cornice si colloca “Sto qui”, poesia che nella sua brevità distilla uno dei nuclei centrali del libro: la tensione tra il ruolo e la realtà, tra l’apparenza e il desiderio di autenticità.
L’“esserci” nel primo verso è già una dichiarazione — non ero certa di esserci, eppure eccomi qui — ma è un esserci sospeso, incerto, come quello di una divinità stanca che non sa più se vuole intervenire o restare a guardare.
La “parte” di cui parla la poesia riecheggia quella teatrale: nella raccolta, la vita spesso appare come una scena, un copione da recitare con riluttanza, un ruolo imposto da altri o dalle abitudini. Patrizia Cavalli ci conduce nel cuore di un’umanità esitante, che non rinuncia alla poesia, ma la usa come uno specchio opaco, per riflettere la propria stanchezza e, insieme, la propria grazia.
Una poesia “divisa” fra due mondi
Sul piano formale, “Sto qui” si costruisce come una spirale lieve, fatta di versi corti, scivolati con apparente naturalezza. La musicalità è sottile, interna, quasi trattenuta, eppure potentissima: l’uso della paratassi (le frasi giustapposte, senza legami forti) crea una sensazione di respiro spezzato, come se il pensiero venisse a galla a fatica.
Non ci sono rime né figure retoriche appariscenti, ma la poesia si affida al ritmo del parlato, al suono sussurrato della riflessione interiore.
L’enjambement tra “potrei almeno uscire dalla parte / e poi sciolta da me” è un piccolo snodo di grazia: suggerisce un movimento, una liberazione, una danza interrotta. C’è anche un’ombra leggera di ironia — quasi pirandelliana — nella parola “parte”, ripetuta come se l’autrice volesse farci sentire il peso del ruolo e insieme l’assurdità del recitarlo.
Tutto è costruito con la maestria dell’essenziale: ogni parola pesa quanto un’intera pagina, ogni pausa apre un orizzonte.
Mettere giù la maschera
Nel cuore della poesia pulsa un desiderio: quello di sottrarsi, di smettere di fingere, di posare la maschera senza sensi di colpa. “Sto qui ci sono” — ma chi sono? Cosa sto facendo? La “parte” è il ruolo sociale, il dovere, ma anche la personalità costruita, la maschera indossata per adattarsi. La voce poetica vorrebbe “uscire dalla parte”, sciogliersi da se stessa per godersi la vita “in disparte”, lontana da obblighi, sguardi, aspettative.
Non si tratta di fuga, ma di desiderio di autenticità: la poetessa sogna una vita sottratta alla rappresentazione, una gioia non esibita, ma intima. Eppure, quella gioia non arriva, perché manca il primo passo: sapere chi si è davvero.
La poesia lascia aperta la domanda, non dà soluzioni. Ma nella sua sospensione gentile, suggerisce che anche il non sapere può essere poesia, anche il dubbio può essere casa. Patrizia Cavalli, con la sua voce unica, ci invita a guardare il nostro “essere al mondo” con tenerezza, ironia e coraggio.