Sogno d’estate di Giosuè Carducci è una poesia sulla memoria, sull’infanzia perduta, sulla bellezza dei luoghi d’origine, dei familiari morti. Ma, la funzione del passato non è un viaggio verso l’enfatizzazione di ciò che non c’è più, ma è il collegamento che permette di poter sconfiggere la paura della morte. La memoria dei figli e delle persone care permetterà a chi non c’è più di poter rivivere, anche se in un semplice e intoccabile sogno.
La morte finisce per svanire di fronte alla memoria. Per questo è qualcosa che va tutelata e scoperta, perché diventa la fonte primaria di ogni rinascita. Si crea un collegamento magico e misterioso tra chi vivce e chi non c’è più, attraverso la porta dei ricordi.
Sogno d’estate una meravigliosa lirica contenuta nella raccolta Odi barbare di Giosuè Carducci pubblicata per la prima volta da Zanichelli nel 1877.
Leggiamo la poesia di Giosuè Carducci per scoprirne il profondo significato.
Sogno d’estate di Giosuè Carducci
Tra le battaglie, Omero, nel carme tuo sempre sonanti
la calda ora mi vinse: chinommisi il capo tra ‘l sonno
in riva di Scamandro, ma il cor mi fuggì su ‘l Tirreno.
Sognai, placide cose de’ miei novelli anni sognai.
Non più libri: la stanza dal sole di luglio affocata,
rintronata da i carri rotolanti su ‘l ciottolato
de la città, slargossi: sorgeanmi intorno i miei colli,
cari selvaggi colli che il giovane april rifioria.
Scendeva per la piaggia con mormorii freschi un zampillo
pur divenendo rio: su ‘l rio passeggiava mia madre
florida ancor ne gli anni, traendosi un pargolo a mano
cui per le spalle bianche splendevano i riccioli d’oro.
Andava il fanciulletto con piccolo passo di gloria,
superbo de l’amore materno, percosso nel core
da quella festa immensa che l’alma natura intonava.
Però che le campane sonavano su dal castello
annunziando Cristo tornante dimane a’ suoi cieli;
e su le cime e al piano, per l’aure, pe’ rami, per l’acque,
correa la melodia spiritale di primavera;
ed i pèschi ed i méli tutti eran fior bianchi e vermigli,
e fiori gialli e turchini ridea tutta l’erba al di sotto,
ed il trifoglio rosso vestiva i declivii de’ prati,
e molli d’auree ginestre si paravano i colli,
e un’aura dolce movendo quei fiori e gli odori
veniva giù dal mare; nel mar quattro candide vele
andavano andavano cullandosi lente nel sole,
che mare e terra e cielo sfolgorante circonfondeva.
La giovine madre guardava beata nel sole.
Io guardavo la madre, guardava pensoso il fratello,
questo che or giace lungi su ‘l poggio d’Arno fiorito
quella che dorme presso ne l’erma solenne Certosa;
pensoso e dubitoso s’ancora ei spirassero l’aure
o ritornasser pii del dolor mio da una plaga
ove tra note forme rivivono gli anni felici.
Passâr le care imagini, disparvero lievi co ‘l sonno.
Lauretta empieva intanto di gioia canora le stanze,
Bice china al telaio seguia cheta l’opra de l’ago.
La memoria è un sogno d’estate che dona vita
Sogno d’estate è una poesia di Giosuè Carducci che riesce a fondere ricordo, paesaggio, affetto e morte in un abbraccio struggente. Non c’è retorica in questo sogno: c’è la verità di chi, pur immerso nella gloria della classicità, cerca rifugio nelle immagini più care e semplici della propria infanzia.
Una poesia dalla quale emerge malinconica dolcezza. Giosuè Carducci si immerge nei ricordi della gioventù, per indagare le profonde emozioni che genera la memoria per condividere un’esperienza universale. La vita fluisce e ciò che di magico apparteneva finisce inesorabilmente per svanire, per diventare qualcosa d’irreale, che non si può toccare.
La famiglia, i territori d’origine, le sensazioni di quell’infanzia riemergono con la dovuta nostalgia, ma, il momento più bello della lirica, composta in esametri latini, è quello del risveglio.
Carducci realizza di essere a casa, nel suo luogo sicuro, in compagnia delle adorate figlie che riempiono la dimora e il cuore del poeta di amore e di gioia, di gratitudine per un presente che non lascia spazio al rammarico per ciò che è stato e non può più ritornare.
Il viaggio nella memoria alla ricerca di refrigerio esistenziale
Tutto ha inizio in un’afosa giornata di estate, nello studio bolognese in cui Giosuè Carducci sta leggendo i suoi libri. Conciliato dal caldo e dalla spossatezza, il poeta scivola nel sonno, e subito si fanno strada reconditi ricordi di una lontana gioventù. È fanciullo in Maremma, in compagnia del fratello Dante, scomparso prematuramente, e dell’amata madre.
Il sogno è subito chiaro nella sua natura: non è evasione, ma ritorno. Ritorno a un tempo perduto, ai “novelli anni”, e soprattutto a un paesaggio interiore che è anche geografico, quello dei colli toscani, che tornano a fiorire sotto lo sguardo sognante dell’autore. Questo diventa il contesto scenografico della lirica. Il paesaggio è tutto. La natura si anima offrendo linfa allo spirito.
L’acqua che scorre, i fiori che sbocciano, il vento che porta profumi dal mare, le ginestre che brillano, le campane che annunciano la festività cristiana dell’Ascensione: tutto prende forma per dare vita al racconto della memoria.
Questa melodia della primavera non è solo uno sfondo, è la vera protagonista. La natura canta come un’orchestra divina, e il piccolo Carducci, nel sogno, ne è parte.
È “percosso nel core” da questa festa cosmica, e ciò che più colpisce è che quella gioia nasce da una semplicità assoluta: la mano della madre, il passo incerto di un bambino, il sole che illumina.
Il ricordo della perdita della madre e del fratello
Nel paradiso onirico del poeta riaffiorano due figure luminose e, al tempo stesso, dolorosamente lontane: la madre e il fratello morti.
La prima, “florida ancor ne gli anni”, è visione di grazia e maternità felice. Il secondo, “superbo dell’amore materno”, è un bambino splendente, ma anche ombra del fratello morto.
Il sogno, quindi, si colora presto di malinconia. Carducci contempla i suoi familiari consapevole di essere irreali, di non poterli toccare realmente. E si chiede, con struggimento silenzioso, se siano ancora spiriti vitali che abitano qualche regione dell’anima o se siano soltanto memorie evocate dal dolore.
Il risveglio diventa vita da vivere
La chiusura della poesia riporta il poeta alla realtà: il sogno svanisce. Il poeta prende coscienza che “le care imagini disparvero lievi co ’l sonno”, ma la vita continua. Due giovani donne, Lauretta e Bice, riempiono la casa: l’una con il canto, l’altra con l’arte domestica e silenziosa del ricamo.
Carducci chiude la sua poesia con un omaggio al presente e al futuro. Il passato non esiste più, i ricordi permettono di trovare pace, ma il presente porta con sè nuova vita. Le due figlie diventano di fatto la speranza di una nuova gioia che abiterà il futuro di Giosué Carducci.
Il poeta non chiude volutamente nel pessimistico senso della perdita, ma sul movimento della vita, sulla grazia che continua a manifestarsi. Non è più l’infanzia, non è più l’eden del sogno, ma è un presente abitato da presenze femminili che restituiscono nuova gioia e armonia.
Giosuè Carducci prende atto che la morte incombe nella vita, ma non è la disperazione a regolare il rapporto con la fine della vita. Meglio guardare alla vita e ciò che di magico riesce a donare. Il sogno e i ricordi diventano un viaggio nell’identità per esplorare la propria anima tra il passato e il presente.
I ricordi sono un momento di abbandono, di pace, di relax rispetto alla spossatezza che genera il vivere. Un momento in cui si possono incontrare le cose più belle e desiderate, senza per questo dover rinunciare a guardare al contemporaneo con la dovuta positività.
La morte è misteriosa, intangibile, di impossibile comprensione, ma non deve far paura. I ricordi di chi resta riescono a riportare in vita chi non c’è più. E nelle due figlie Carducci affida la sua rinascita. La loro memoria permetterà all’autore di poter trovare di nuovo vitalità bei sogni delle due future donne.