“Primo giorno” è il risveglio amaro, un canto che oscilla tra disperazione e preghiera. In questa poesia, Salvatore Quasimodo parla di un’anima che ha già attraversato tempeste, che ha perso la luce delle proprie stelle, ma che ancora si rivolge a Dio. E non chiede salvezza, perché sa di aver attraversato l’inferno. Vuole condividere il suo tormento, raccontare cosa ha passato.
“Primo giorno” di Salvatore Quasimodo
Una pace d’acque distese
mi desta nel cuore
d’antichi uragani,
piccolo mostro turbato.
Son lievi al mio buio
le stelle crollate con me
in sterili globi a due poli,
tra solchi d’aurore veloci:
amore di rupi e di nubi.
È tuo il mio sangue,
Signore: moriamo.
La poesia si apre con una scena apparentemente serena:
“Una pace d’acque distese / mi desta nel cuore…”
È l’immagine di un mattino chiaro, di una superficie calma. Ma quella pace è ingannevole. Subito irrompe l’altra metà del verso:
“… d’antichi uragani”.
Gli uragani non sono eventi meteorologici, ma tempeste interiori, memorie di traumi. In pochi tratti Quasimodo mette in contrasto due mondi: la stasi dell’acqua e la furia del passato. È il movimento tipico della sua poesia matura, che alterna quiete e inquietudine, luce e ombra, senza mai concedere equilibrio.
Il trauma fra le righe
Abbiamo visto come nei primi versi, Quasimodo parli di acque distese, placide, che poi mutano a causa di un turbinio di emozioni improvviso: antichi uragani, un mostro turbato. Sono dolori passati, forse personali o forse ancora collettivi.
Un rimando lirico alla guerra, magari. O magari l’io turbato che si definisce un piccolo mostro turbato di cui non sappiamo nulla, un’immagine che è piccola e quindi richiama l’infanzia ferita, una creatura smarrita tra violenza e innocenza.
Il “piccolo mostro”: l’io turbato
Tra le immagini più enigmatiche spicca il piccolo mostro turbato. È il cuore stesso del testo: una definizione dell’io, fragile e oscuro insieme. Piccolo, perché indifeso, incapace di dominare la realtà; mostro, perché porta in sé una colpa, o forse una ferita che lo deforma.
Qui possiamo ipotizzare un rimando alle esperienze che segnarono il vissuto di un Quasimodo bambino e un Quasimodo adulto, esperienze che andranno poi a segnare la sua percezione del mondo.
Ricordiamo il terremoto di Messina, l’Italia della guerra e della Resistenza.
Nei suoi versi, la catastrofe storica diventa ferita interiore: un mostro.
Quasimodo sembra meditare sulla propria vulnerabilità, sulla fragilità della condizione umana: un essere minuscolo in mezzo alle forze della natura e della storia, quasi come una formica sul sentiero battuto.
Ma le stelle cadute non sembrano forse le foglie di Ungaretti?
Salvatore Quasimodo non partecipò direttamente alla Seconda Guerra Mondiale come soldato e lavorò come tecnico del Genio civile, ma fu profondamente segnato dal conflitto. Visse in prima persona il clima drammatico degli anni del fascismo, del conflitto e della Resistenza, perché non fu un sostenitore del regime, e questo fa presto pensare che la poesia possa nascondere un messaggio politico.
“Son lievi al mio buio / le stelle crollate con me”
Le stelle sono compagni perduti? Soldati? Forse ancora ideali caduti, illusioni spezzate.
Scritta in un periodo segnato dalla disillusione e dalla crisi del sacro, “Primo giorno” può essere letta come una riflessione sul peso della storia, sulla colpa collettiva, e sul bisogno mai soddisfatto di redenzione.
Quasimodo non è più il poeta ermetico delle origini, ma l’evoluzione di ciò che ha scoperto in principio: un uomo che cerca parole lucide per dire cosa nasconde il buio.
Una poesia come questa, breve e definitiva, si legge in pochi secondi, ma resta dentro come un’eco cupa per molto più tempo, perché là si può interpretare diversamente proprio grazie a quell’io turbato, quel piccolo mostro che Quasimodo vorrebbe far scomparire dietro parole etiche e scoperte psicologiche.
A terrorizzarlo è l’emersione di un io ferito e alienato, segnato dal trauma collettivo della guerra — forse.
E quanti scemi di guerra ci sono per le strade? Quanti sono chiusi dietro le porte dei manicomi? Persone che sbavano, urlano e balbettano.
Oggi la definiremmo coscienza traumatica: un io che teme se stesso perché ha visto — o forse anche tollerato — l’orrore. È un’auto-percezione che Quasimodo affida alla poesia con lucidità spietata, anticipando molti temi che la psicoanalisi e la letteratura esploreranno negli anni successivi.
La sfida, la confessione
L’ultima parte della poesia è una svolta drammatica: dopo le immagini cosmiche, il tono diventa netto, quasi brutale.
“È tuo il mio sangue, / Signore: moriamo”
Non c’è supplica, non c’è speranza di salvezza. È un atto estremo, che unisce uomo e Dio nello stesso destino di morte. Questa chiusura racchiude la crisi spirituale del Novecento: il sacro non è più rifugio, ma complice impotente. Morire insieme significa riconoscere la fine di ogni certezza. È il punto più cupo e insieme più potente della lirica.
Non è un’accusa rivolta agli altri, ma una confessione privata: il mostro è dentro di sé, piccolo perché fragile, ma mostro perché capace di riconoscere in sé l’ombra del male.
Ma se invece parlasse della sua infanzia?
Quell’io turbato non sarebbe altro che un piccolo mostriciattolo urlante, poco amato e trattato come un pacco postale fino al 1908, giorno in cui il terremoto di Messina lo lascio sì in vita, ma con delle riserve psicologiche…
Se c’è voglia d’indagare sull’io di Quasimodo, insomma, c’è solo da scavare e portare alla luce.
Fatto sta che la poesia, così com’è, può essere adottata per qualsiasi via d’interpretazione. E anche oggi, “Primo giorno” è perfetta l’io turbato chi chiunque.
Una poesia breve, ma abissale
“Primo giorno” non concede spiegazioni. Lascia solo immagini: l’acqua immobile, il mostro interiore, le stelle cadute, il patto finale con Dio.
In ognuna di queste figure si riflette la condizione umana dopo le catastrofi storiche, ma anche la fragilità privata di un uomo che ha conosciuto il dolore fin dall’infanzia. È una poesia che si legge in un attimo, ma che resta dentro come una ferita lenta. Oggi, a distanza di decenni, parla ancora: perché tutti, almeno una volta, abbiamo sentito il peso di uragani sepolti.