“Piango” è una poesia profonda e breve di Sibilla Aleramo, poetessa e scrittrice ribelle del Novecento italiano che tanto è stata chiacchierata in passato quanto ancora incompresa nel 2025.
Con questi versi, Sibilla reclama il diritto di essere vista e compresa, pianta. Ma è lei che piange per “la cecità degli altri” (V. 3) perché non sanno vederla pur incontrandola in strada e guardandola negli occhi. Loro — le persone — non accettano il suo carattere ribelle, non accettano la presa di posizione di una donna, e ancora oggi non accettano il femminismo.
È un testo breve, tagliente, costruito su anafore e invocazioni, in cui Sibilla Aleramo distilla in pochi versi una biografia inquieta: l’incomprensione sociale, la fatica della libertà, l’ostinazione a farsi persona “con lungo martirio e sì pura fede” (V. 14).
“Piango” di Sibilla Aleramo
Piango
come dovrebbero gli altri su me piangere,
e nessuno invece nessuno la mia agonia intende.
Piango
per la cecità degli altri,
di tutti che non sanno vedermi,
che sulla lor strada m’incontrano
e nel fondo dei miei occhi
vedere non sanno
quest’infinita supplica d’amore,
ch’io in carità essere sentita vorrei,
e cara a tutti sentirmi
qual mi sono creata
con lungo martirio e sì pura fede…
Piango
come dovrebbero gli altri su me piangere.
O non piangere, no,
ma dall’agonia strapparmi,
dalla morte che pietosa sola mi vuole.
Cosa dice la poesia?
La voce di Aleramo denuncia un disallineamento radicale tra il suo sentire e lo sguardo del mondo. Percepisce un disinteresse globale, una sorta d’invisibilità, e da questa condizione prova a uscirne in tutti i modi, gridando con le sue poesie che invece è umana tanto quanto chi si adagia alla condizione imposta dalla società, perché esiste un’altra via da percorrere.
“Piango” è insieme constatazione e appello: constatazione dell’invisibilità — gli altri “non sanno vedermi” (V. 6) — e appello a un’azione concreta — “dall’agonia strapparmi” (V. 18).
Il pianto e il silenzio
È così che Sibilla Aleramo parla della “morte che pietosa sola mi vuole” (V. 22) e lamenta con “Piango” questa condizione di isolamento e invisibilità rispetto alla collettiva.
Leggendo tra i versi s’intuisce che, se solo non fosse isolata e malvista, allora non sarebbe solo la morte a provare pena per lei. Quante figure caritatevoli ha incontrato nel suo percorso?
Il pianto qui non è debolezza, è atto linguistico: rompe il mutismo che isola, reclama attenzione, si fa sospiro e sirena di pericolo. Per questo il testo suona anche contemporaneo. Parla di salute mentale, di stigma, di quel sentirsi “fantasma in mezzo alla folla” che molte vite conoscono.
Versi importanti
“qual mi sono creata / con lungo martirio e sì pura fede…”
Un autoritratto morale dove Aleramo rivendica l’identità che si è conquistata nonostante il dolore, lasciando alle spalle un figlio e gli amori tossici.
“O non piangere, no, / ma dall’agonia strapparmi”
Il punto di svolta della poesia: dopo la richiesta del pianto, ora la rifiuta e chiede un aiuto concreto “dalla morte che pietosa sola mi vuole”.
Vita dell’autrice
Sibilla Aleramo — pseudonimo di Marta Felicina Faccio, 1876–1960 — è tra le voci più potenti del primo Novecento italiano. A diciassette anni subisce una violenza, poi un matrimonio riparatore e la maternità: esperienze che la travolgono e la spingono a costruire, con tenacia, una soggettività non conforme a quella che si aspetterebbe.
Nel 1906 pubblica il romanzo autobiografico “Una donna”, gesto fondativo del nostro femminismo: il libro racconta la conquista della libertà attraverso l’uscita dal matrimonio e il dolorosissimo sacrificio del figlio, perso in tribunale.
La poesia di Aleramo nasce in questo crocevia di intelligenza militante e ferita aperta. “Piango” sembra portare sul ritmo la memoria di tante incomprensioni: la condanna sociale verso la donna che esce dai ruoli, le durezze degli amori (basti pensare alla relazione incendiaria con Dino Campana, 1916-18), la precarietà economica e affettiva, ma anche un’instancabile richiesta di dialogo: conferenze, impegno suffragista, giornali. L’“agonia” non è solo personale: è il prezzo di chi vuole cambiare i codici del vivere e, spesso, si trova davanti il muro dell’indifferenza.