Nella moltitudine di Wisława Szymborska è una poesia che invita a fermarsi nei momenti in cui il tempo chiede un bilancio, come accade quando un anno si chiude e un altro si affaccia. Non per misurare ciò che è mancato o ciò che resta da fare, ma per riconoscere un’evidenza più profonda: essere ciò che si è non è un merito, ma un evento improbabile di cui è possibile avere coscienza.
L’identità non nasce da una scelta consapevole né da una vocazione, ma da una coincidenza fragile che avrebbe potuto prendere infinite altre direzioni. La poetessa polacca osserva l’esistenza senza enfasi e senza consolazioni, ricordando che ogni individuo avrebbe potuto essere altro, o non essere affatto, parte indistinta di una moltitudine anonima, priva di memoria e di sguardo su di sé.
In questo tempo di passaggio, la poesia sposta l’attenzione dal giudizio al fondamento. Prima di ogni progetto e di ogni rimpianto, resta il fatto decisivo di esserci e di saperlo. È in questa consapevolezza, più che in qualsiasi risultato, che Szymborska individua una forma silenziosa di forza, capace di orientare il modo in cui guardare al tempo che passa e a quello che verrà.
Nella moltitudine è una poesia che fa parte della raccolta di poesie Attimo (Chwila) di Wisława Szymborska, a cura di Pietro Marchesani, pubblicata da Libri Scheiwiller nel 2002.
Leggiamo questa stupenda poesia di Wisława Szymborska per coglierne il profondo significato.
Nella moltitudine di Wisława Szymborska
Sono quella che sono.
Un caso inconcepibile
come ogni caso.In fondo avrei potuto avere
altri antenati,
e così avrei preso il volo
da un altro nido,
così da sotto un altro tronco
sarei strisciata fuori in squame.Nel guardaroba della natura
c’è un mucchio di costumi: di
ragno, gabbiano, topo campagnolo.
Ognuno calza subito a pennello
e docilmente è indossato
finché non si consuma.Anch’io non ho scelto,
ma non mi lamento.
Potevo essere qualcuno
molto meno a parte.
Qualcuno d’un formicaio, banco, sciame ronzante,
una scheggia di paesaggio sbattuta dal vento.Qualcuno molto meno fortunato,
allevato per farne una pelliccia,
per il pranzo della festa,
qualcosa che nuota sotto un vetrino.Un albero conficcato nella terra,
a cui si avvicina un incendio.Un filo d’erba calpestato
dal corso di incomprensibili eventi.Uno nato sotto una cattiva stella,
buona per altri.E se nella gente destassi spavento,
o solo avversione,
o solo pietà?Se al mondo fossi venuta
nella tribù sbagliata
e avessi tutte le strade precluse?La sorte, finora,
mi è stata benigna.Poteva non essermi dato
il ricordo dei momenti lieti.Poteva essermi tolta
l’inclinazione a confrontare.Potevo essere me stessa – ma senza stupore,
e ciò vorrebbe dire
qualcuno di totalmente diverso.
Quando essere un caso diventa coscienza
In Nella moltitudine il valore dell’esistenza prende forma nel momento in cui il caso si trasforma in consapevolezza. Ogni vita nasce da una combinazione fortuita, ma solo alcune possiedono la capacità di riconoscersi, di interrogare la propria presenza nel mondo e di misurarla nel tempo. È in questo scarto che la poesia colloca la differenza decisiva.
Szymborska mostra come l’identità umana emerga da una coincidenza fragile che avrebbe potuto generare infinite alternative, molte delle quali prive di memoria e di confronto. Essere qualcuno significa allora poter sapere di esserci, poter ricordare, poter confrontare ciò che è stato con ciò che avrebbe potuto essere, mantenendo uno sguardo vigile sulla propria esistenza.
Questo passaggio dalla casualità alla coscienza non viene affermato in modo astratto, ma prende corpo nei versi attraverso una sequenza di immagini e di possibilità mancate. La poesia procede per variazioni, deviazioni, alternative, accompagnando il lettore dentro un movimento che prepara gradualmente l’affermazione finale sullo stupore come elemento qualificante dell’essere. È seguendo questo percorso che diventa possibile entrare nel tessuto dei versi e coglierne il significato più profondo.
L’io come evento improbabile
La poesia di Wisława Szymborska si apre con un’affermazione che ha la forza di un assioma:
Sono quella che sono.
Non è una dichiarazione identitaria orgogliosa, ma un punto fermo provvisorio, subito incrinato dalla frase successiva. L’io si definisce come “un caso inconcepibile / come ogni caso”. In queste parole c’è già tutto il rovesciamento sferzante tipico di Szymborska. L’unicità non deriva da una superiorità, ma dal fatto che ogni esistenza, proprio perché irripetibile, è insieme unica e radicalmente contingente.
L’io poetico non si pone al centro del mondo, ma si colloca all’interno di una logica universale che vale per tutti. Essere “questa” persona non è più significativo che essere qualunque altra. È accaduto, e tanto basta per interrogarsi.
Quando la poesia immagina altri antenati, altri nidi, altri tronchi, il pensiero si sposta sul piano biologico ed evolutivo. L’identità viene spogliata di ogni aura spirituale o morale. Sarebbe bastata una minima variazione nella catena delle cause per produrre una vita completamente diversa, forse animale, forse muta, forse priva di qualsiasi possibilità di autocoscienza.
Qui Szymborska compie un gesto decisivo. Mostra che l’umano non è il centro, ma una delle possibilità. La nascita non è una vocazione, ma una deviazione riuscita tra infinite deviazioni possibili.
Il “guardaroba della natura” e l’assenza di scelta
L’immagine del “guardaroba” introduce una delle metafore più lucide della poesia. La natura dispone di un numero incalcolabile di forme, pronte a essere indossate. Nessuna richiede consenso. Nessuna comporta una selezione meritocratica. Ogni costume “calza subito a pennello” e viene portato fino a consumarsi.
In questo passaggio emerge con chiarezza l’assenza di scelta. L’io poetico lo ammette senza recriminazioni. Non ha scelto, ma non si lamenta. È una constatazione, non una rinuncia. La libertà non è all’origine dell’essere, ma semmai nel modo in cui l’essere viene abitato.
Quando la poesia evoca il formicaio, il banco, lo sciame, il discorso si sposta dal piano naturale a quello simbolico. Qui la “moltitudine” diventa il luogo della dissoluzione dell’io. Esistenze collettive, indistinte, prive di nome, prive di storia individuale.
Szymborska suggerisce che il rischio non è solo biologico, ma anche umano. Si può essere vivi e tuttavia non davvero “qualcuno”. Si può esistere come parte di un movimento anonimo, trascinati dagli eventi, senza possibilità di riflessione.
Le vite vulnerabili e il peso della fortuna
Il catalogo delle alternative si fa più duro quando compaiono le vite destinate allo sfruttamento, alla distruzione, alla passività assoluta. Animali allevati per essere usati, alberi immobili davanti al fuoco, fili d’erba calpestati da eventi incomprensibili. Qui la casualità si intreccia con la vulnerabilità.
La frase “La sorte, finora, mi è stata benigna” non suona come un ringraziamento retorico. È una constatazione temporanea, fragile, consapevole della propria precarietà. “Finora” è la parola chiave. Nulla garantisce che la benevolenza continui.
Nelle ultime strofe la poesia si concentra su ciò che avrebbe potuto mancare anche restando umani. Non solo il corpo o la posizione nel mondo, ma facoltà interiori decisive. La memoria dei momenti lieti, l’inclinazione a confrontare, la capacità di mettere in relazione il passato e il presente.
Qui si chiarisce definitivamente il senso del testo. L’identità non coincide con l’essere vivi, ma con il poter riflettere sulla propria vita. Il culmine arriva con lo stupore. Essere se stessi senza stupore significherebbe essere “qualcuno di totalmente diverso”. Non meno, ma altro. Più vicino alla materia che alla coscienza.
L’analisi dei versi mostra come Nella moltitudine costruisca il proprio significato attraverso una progressiva messa a confronto tra ciò che l’io è e tutto ciò che avrebbe potuto essere. Ogni immagine aggiunge una possibilità alternativa, mentre ogni possibilità esclusa restringe il campo fino a far emergere ciò che davvero conta: non il semplice essere vivi, ma il poter sapere di esserlo.
Il vero privilegio è sapere di esserci
Nella moltitudine non offre consolazioni né promesse. Non suggerisce che l’esistenza sia giusta o ordinata, né che l’identità coincida con un destino da compiere. La poesia lascia emergere una verità più sobria e più difficile: tra tutte le vite possibili, questa è accaduta. Non per merito, non per scelta, ma per una combinazione fragile che avrebbe potuto prendere infinite altre direzioni.
Ciò che rende questa vita diversa dalle altre non è il suo valore assoluto, ma la possibilità di riconoscerla come tale. La memoria dei momenti lieti, la capacità di confrontare, lo stupore davanti al fatto stesso di esistere sono gli elementi che trasformano il caso in coscienza. Senza questo sguardo, anche l’essere umano resterebbe parte indistinta della moltitudine, esposto agli eventi senza poterne prendere misura.
La forza che emerge dalla poesia di Wisława Szymborska è silenziosa e priva di enfasi. Non consiste nel diventare altro, né nel rincorrere ciò che manca, ma nel continuare a stare dentro ciò che si è con attenzione e stupore. Finché questa consapevolezza resta viva, il tempo che passa non è soltanto qualcosa da subire o da giudicare, ma lo spazio fragile in cui l’esistenza, pur casuale, può ancora riconoscersi.
