Questa tenera poesia di Eugenio Montale ci parla direttamente al cuore. È un testo lirico che fa parte della stagione matura del poeta, quella che porta a “Xenia”, “Satura” e ai libri successivi: un periodo più discorsivo, più domestico, più affettuosamente ironico rispetto all’asprezza simbolica di “Ossi di seppia”, quando ancora stringeva i suoi pensieri in poche frasi ermetiche e rincorreva l’idolo di poeti come Rimbaud, o l’eroismo visionario delle liriche di “Clizia”.
“Hai dato il mio nome a un albero?”, così s’intitola la poesia di cui vi parliamo oggi, un componimento che appartiene a questa famiglia di testi in cui l’amore, la parola e il mondo naturale si specchiano l’uno nell’altro. Qui la poesia diventa un gesto di cura: nominare le cose equivale a crearle, o almeno a salvarle dall’indifferenza.
“Hai dato il mio nome a un albero?” di Eugenio Montale
Hai dato il mio nome a un albero? Non è poco;
pure non mi rassegno a restar ombra, o tronco,
di un abbandono nel suburbio. Io il tuo
l’ho dato a un fiume, a un lungo incendio, al crudo
gioco della mia sorte, alla fiducia
sovrumana con cui parlasti al rospo
uscito dalla fogna, senza orrore o pietà
o tripudio, al respiro di quel forte
e morbido tuo labbro che riesce,
nominando, a creare; rospo fiore
erba scoglio –
quercia pronta a spiegarsi su di noi
quando la pioggia spollina i carnosi
petali del trifoglio e il fuoco cresce.
Il nucleo è semplice e potentissimo: due amanti si scambiano un dono simbolico, un nome. L’“io-poeta” scopre che l’altra persona ha chiamato un albero col suo nome: un modo per radicarlo, per dargli durata nel tempo; e lui ricambia “dando” il suo nome a un fiume, a un incendio, a forze inquiete e vitali: tutte cose che lo rendono vivo.
Il discorso scivola poi su un episodio fiabesco, perché “gioco della mia sorte, alla fiducia / sovrumana con cui parlasti al rospo / uscito dalla fogna, senza orrore o pietà” (V. 5-7). Il poeta, figura umile e sempre respinta, dipinge la sua controparte come un’anima pura e senza ribrezzo. Addirittura, la sua parola “riesce, nominando, a creare” (V. 10): trasforma il rospo in “fiore, erba, scoglio”, fino alla grande quercia che si apre sui due come protezione. È una piccola genesi privata: la lingua dell’amore confuta la condanna del “suburbio” e della resa a essere “ombra o tronco” (V. 2); crea un rifugio condiviso nel quale la materia vile — il rospo, il fango — può rifiorire.
Montale e la vita: perché questa voce ci suona “tarda”
Senza forzare datazioni, il tono confidenziale, la concretezza domestica, l’ironia (“Non è poco”) e il lessico quotidiano collocano il testo nella stagione matura di Montale (anni Sessanta-Settanta). È l’epoca di “Xenia” – il ciclo dedicato a Drusilla Tanzi (Mosca), compagna di una vita – e poi di “Satura”: il poeta abbandona il sublimare mitico di “Clizia” (Irma Brandeis) e la tensione apocalittica de La bufera e altro per un dettato più parlato, spesso prosastico, intensamente affettivo.
La figura del “rospo” guardato senza ribrezzo, il gioco amoroso dei nomi dati agli oggetti, la quercia che si apre “su di noi” hanno la tenerezza minuta dei testi dedicati a Mosca: amore come pratica quotidiana, non come culto solare.
E quel “suburbio” da cui l’io non vuole diventare tronco/ombra allude anche alla biografia di Montale dopo gli anni di Firenze: Milano, il Corriere della Sera, la vita civile e insieme disincantata del dopoguerra. In quell’ambiente urbano, la poesia cerca isole di senso: un albero battezzato, un animale ripescato dalla fogna, la pioggia che spollina il trifoglio – piccole epifanie contro l’entropia.
Un albero nel 2025
Oggi, non sapete quanto sia importante chiamare un albero col nome dell’amato. È un vero e proprio atto di resistenza — in senso letterale: al cambiamento climatico, all’auto-sabotaggio umano.
La natura si sta lentamente, ma inesorabilmente distruggendo a causa nostra, e per questo sono nate delle associazioni che ci permettono di adottare a distanza degli alberi. Questi volontari si occupano di prendere la pianta, individuare il territorio adatto, piantarle e prendersene cura…
Chiamarlo fisicamente con il nome della persona speciale non è quindi un bel gesto? Noi crediamo di sì: un bel gesto verso l’ambiente e verso la persona che si ama, resa partecipe di un miglioramento importante per il pianeta in cui vive.
Forse non era proprio questo che suggeriva Montale, ma bisogna pur sempre partire da qualche parte, ora che siamo così avanti e così indietro…