Ci sono estati che sembrano non finire mai. Le giornate scorrono lente, immobili, come trattenute da bambini che giocano al tiro alla fune. È la luce del sole a ingannarci, a farci vivere un tempo alterato dopo inverni tanto uggiosi e bui.
Louise Glück, poetessa statunitense e Premio Nobel per la Letteratura nel 2020, ha saputo cogliere questa dimensione sospesa nella poesia “Midsummer” (Mezza estate), che si trova nella raccolta “A Village Life” (Una vita di paese, edito Il Saggiatore) del 2009.
Non è un’estate da cartolina, fatta di mare e luce sfacciata. È un’estate interna, intima, fatta di notti calde, campi di mais, fruscii nel buio, e soprattutto memorie che riaffiorano senza clamore, con una forza quasi sussurrata.
Louise Glück ha spesso raccontato il mondo attraverso i suoi bordi: il confine tra infanzia e maturità, tra madre e figlia, tra vita e morte. In “Midsummer”, quel confine è l’estate stessa: una stagione piena e muta, che non grida, non promette, ma custodisce.
“Midsummer” (2009) di Louise Glück
(Inglese)
On nights like this we used to swim in the quarry,
the boys making up games requiring them to tear off the girls’ clothes
and the girls cooperating, because they had new bodies since last summer
and they wanted to exhibit them, the brave ones
leaping off the high rocks — bodies crowding the water.The nights were humid, still. The stone was cool and wet,
marble for graveyards, for buildings that we never saw,
buildings in cities far away.On cloudy nights, you were blind. Those nights the rocks were dangerous,
but in another way it was all dangerous, that was what we were after.
The summer started. Then the boys and girls began to pair off
but always there were a few left at the end — sometimes they’d keep watch,
sometimes they’d pretend to go off with each other like the rest,
but what could they do there, in the woods? No one wanted to be them.
But they’d show up anyway, as though some night their luck would change,
fate would be a different fate.At the beginning and at the end, though, we were all together.
After the evening chores, after the smaller children were in bed,
then we were free. Nobody said anything, but we knew the nights we’d meet
and the nights we wouldn’t. Once or twice, at the end of summer,
we could see a baby was going to come out of all that kissing.And for those two, it was terrible, as terrible as being alone.
The game was over. We’d sit on the rocks smoking cigarettes,
worrying about the ones who weren’t there.And then finally walk home through the fields,
because there was always work the next day.
And the next day, we were kids again, sitting on the front steps in the morning,
eating a peach. Just that, but it seemed an honor to have a mouth.
And then going to work, which meant helping out in the fields.
One boy worked for an old lady, building shelves.
The house was very old, maybe built when the mountain was built.And then the day faded. We were dreaming, waiting for night.
Standing at the front door at twilight, watching the shadows lengthen.
And a voice in the kitchen was always complaining about the heat,
wanting the heat to break.Then the heat broke, the night was clear.
And you thought of the boy or girl you’d be meeting later.
And you thought of walking into the woods and lying down,
practicing all those things you were learning in the water.
And though sometimes you couldn’t see the person you were with,
there was no substitute for that person.The summer night glowed; in the field, fireflies were glinting.
And for those who understood such things, the stars were sending messages:
You will leave the village where you were born
and in another country you’ll become very rich, very powerful,
but always you will mourn something you left behind, even though
you can’t say what it was,
and eventually you will return to seek it.
(Italiano)
Nelle notti come questa facevamo il bagno nella cava,
i ragazzi inventavano giochi in cui dovevano strappare i vestiti alle ragazze
e le ragazze collaboravano, perché dall’estate precedente avevano corpi nuovi
e volevano esporli, quelle coraggiose
si tuffavano dalle rocce più alte — una ressa di corpi nell’acqua.Le notti erano umide, immobili. La pietra era fresca e bagnata,
marmo per cimiteri, per case che non vedevamo mai,
case in città lontane.Nelle notti nuvolose eri cieco. Allora le rocce erano pericolose,
ma in un altro senso tutto era pericoloso, e questo noi lo cercavamo.
Arrivava l’estate. Allora ragazzi e ragazze cominciavano a far coppia
ma sempre alla fine alcuni rimanevano esclusi — a volte sorvegliavano,
a volte fingevano di andarsene insieme come gli altri,
ma cosa potevano fare lì, nel bosco? Nessuno voleva essere come loro.
Ma partecipavano comunque, come se una notte la loro fortuna potesse cambiare,
il loro destino essere un destino diverso.All’inizio e alla fine, però, eravamo tutti insieme.
Sbrigate le faccende serali, messi a letto i bambini più piccoli,
eravamo liberi. Nessuno diceva niente, ma sapevamo in quali notti ci saremmo incontrati
e in quali no. Una o due volte, alla fine dell’estate,
capivamo che tutti quei baci avrebbero prodotto un bambino.E per quei due era terribile, terribile quanto essere soli.
Il gioco era finito. Ci sedevamo sulle rocce a fumare sigarette,
preoccupandoci per quelli che non c’erano.E poi finalmente andavamo a casa attraverso i campi,
perché il giorno dopo c’era sempre da lavorare.
E il giorno dopo eravamo di nuovo ragazzini, seduti di mattina sui gradini di casa,
a mangiare una pesca. Solo questo, ma sembrava un premio avere una bocca.
E poi a lavorare, il che significava dare una mano nei campi.Uno dei ragazzi lavorava per una vecchia signora, montava scaffali.
La casa era vecchissima, forse costruita quando era stato costruito il monte.E poi il giorno si spegneva. Stavamo sognando, aspettando la notte.
In piedi davanti alla porta al crepuscolo, guardavamo le ombre allungarsi.
E sempre una voce in cucina si lamentava del caldo, voleva che il caldo si rompesse.Poi il caldo si rompeva, la notte era limpida.
E pensavi al ragazzo o alla ragazza che avresti incontrato più tardi.
E pensavi a come saresti entrato nel bosco e ti saresti coricato,
mettendo in pratica tutto quello che avevi imparato nuotando.
E anche se a volte non riuscivi a vedere la persona che era con te,
nessuno avrebbe potuto sostituirla.La notte estiva era luminosa; nel campo brillavano le lucciole.
E per chi capisce queste cose, le stelle mandavano messaggi:
lascerai il villaggio dove sei nato
e in un altro paese diventerai molto ricco, molto potente,
ma rimpiangerai sempre qualcosa che ti sei lasciato dietro, anche se non sai dire cos’è,
e alla fine tornerai a cercarlo.
La cava e i corpi che cambiano
La poesia si apre con un’immagine che ha il tono della rievocazione adolescenziale. Già dai primi versi, la poetessa ci accompagna in un paesaggio sensoriale, dove i corpi si fondono all’estate e lo spazio circostante (la cava) si fonde con l’estate. Ragazzi e ragazze sono protagonisti, la natura si avviluppa e loro si mettono alla prova con ruoli e desideri.
La cava, dove loro nuotano è il cuore pulsante della poesia, un’immagine meravigliosa. Glück racconta della scoperta. Le ragazze vogliono esibire i loro corpi, ormai cambiati dall’anno prima, e lo fanno con naturalezza. Non c’è violenza, solo curiosità nei loro giochi sottili e curiosi. Un processo naturale, impercettibile, che cambia l’essere umano nel corso del tempo in modo lento e persistente.
La stagione estiva, un tempo immobile
Nel cuore della poesia, Glück abbandona il semplice ricordo e si interroga sul presente. Qui la stagione estiva diventa una metafora della sospensione.
La natura è immobile, ma non morta. È viva in modo invisibile, silenzioso, come se si preparasse a un passaggio. È un’estate dell’anima, in cui ogni cosa è lì, eppure in attesa: del raccolto, del ricordo, del cambiamento.
Nella poesia non c’è traccia di euforia o spensieratezza. C’è invece una forma di pace malinconica, tipica della scrittura di Glück, dove ogni paesaggio esteriore riflette uno stato emotivo interiore. L’estate non è solo una stagione, è un’epoca dell’esistenza in cui si tace, si trattiene, si ascolta.
Una voce femminile che guarda indietro
Molti critici hanno notato come le poesie di “Una vita di paese” assumano un tono più narrativo rispetto alle raccolte precedenti.
In “Midsummer”, si sente la voce di una giovane donna che torna ai luoghi dell’infanzia e li osserva sotto una lente nuova, più adulta e nostalgica. C’è affetto, ma anche distacco. C’è memoria, ma anche una consapevolezza del tempo che non torna.
Louise Glück non ha mai cercato la bellezza facile. Le sue parole sono scabre, levigate dall’essenziale. Ma è proprio in quella sobrietà che si annida il senso più profondo delle cose: i silenzi, gli odori, i gesti taciuti dicono più delle parole.
La poesia suggerisce che tutto è un percorso, che ogni scelta apre un mondo nuovo e sconosciuto. Le rocce, la notte, il desiderio: sono tutti luoghi del rischio e dell’attesa.
Un’estate diversa: interiore, fertile, immobile
“Midsummer” si oppone all’idea comune dell’estate come stagione del movimento, del viaggio, della leggerezza. Qui l’estate è immobilità piena, maturazione silenziosa, gestazione.
È l’estate che precede il cambiamento, non lo grida ma lo prepara. Parla di trasformazione interiore ed esteriore, di ricordi, della memoria come luogo fertile, dove tutto sembra fermo ma in realtà lavora dentro di noi, cambiandoci. L’estate di Glück è il tempo in cui si ascolta crescere ciò che non si vede.
La stagione ideale per chi ama restare in silenzio
“Midsummer” è una poesia da leggere quando tutto sembra troppo rumoroso. È un invito a riscoprire la bellezza del silenzio, delle notti calde, delle pause.
In un mondo ossessionato dall’azione, Glück ci ricorda che anche l’immobilità ha un ritmo, anche il non detto ha un peso.
Con “Midsummer”, Louise Glück ci regala una delle immagini più potenti della calda stagione come tempo interiore.
Non è una stagione per fare, ma per essere. Non per partire, ma per ascoltare ciò che cresce dentro di noi.
Nel silenzio dei campi, nella luce della luna, nei passi lenti verso il passato, la poesia si fa paesaggio dell’anima, e l’estate non è più un periodo dell’anno: è uno spazio mentale e affettivo in cui restare immobili, per sentire meglio.