“L’invetriata” (1914) di Dino Campana: quando l’estate diventa febbre dell’anima

16 Luglio 2025

Scopri il significato de L’invetriata e come l’estate influisce sull’anima secondo Dino Campana. Un viaggio nella poesia.

“L'invetriata” (1914) di Dino Campana: quando l’estate diventa febbre dell’anima

Non tutte le estati sono luminose. Alcune bruciano, altre opprimono, e ce ne sono persino di quelle che lasciano nel cuore un segno, una ferita.

L’estate, in “L’invetriata” di Dino Campana, è proprio una di queste: una febbre, una visione, un chiarore che non conforta ma lacera dentro. Siamo lontani dai tramonti consolatori o dalle immagini bucoliche che la tradizione poetica ha spesso associato alla stagione calda.

Scritto nel 1914 e incluso nella raccolta “Canti Orfici”, questo componimento breve ma densissimo rappresenta uno degli esempi più significativi della poesia visionaria di Campana, il poeta “maledetto” per eccellenza della letteratura italiana.

La sua estate è urbana, claustrofobica, filtrata attraverso una “invetriata” – una finestra chiusa, che lascia passare la luce ma isola, distorce e brucia. E attraverso quel vetro si riflettono non solo i chiarori del giorno, ma anche tutte le ossessioni di una psiche fragile, braccata dal male di vivere, che ha già portato il poeta a essere ricoverato in manicomio a Imola nel 1906.

 

“L’invetriata” (1914) di Dino Campana

La sera fumosa d’estate
Dall’alta invetriata mesce chiarori nell’ombra
E mi lascia nel cuore un suggello ardente…

La piaga rossa della sera
Sanguina ancora lenta
Sui tetti e sui cuori,
Putredine di rosa…

 

Una visione tra vetro e febbre

La poesia si apre con un’immagine già satura di atmosfera: “La sera fumosa d’estate / Dall’alta invetriata mesce chiarori nell’ombra / E mi lascia nel cuore un suggello ardente…”

La scena è estiva, ma tutt’altro che limpida: la sera è fumosa, la luce è fioca, torbida. Non filtra dal cielo aperto, bensì da un’invetriata, una barriera trasparente ma inaccessibile. Potrebbe essere paragonata alla siepe leopardiana, con la sola differenza che l’invetriata imprigiona e la siepe ha il potere d’essere scavalcata.

Ma dietro entrambe, c’è il resto del mondo.

E quella luce, per Campana? Anziché consolare, brucia il cuore, lasciando un suggello ardente. La finestra diventa qui simbolo del confine tra mondo esterno e mondo interiore, tra la realtà e la visione febbrile del poeta. È la soglia della coscienza, uno schermo tra il corpo e il fuori, dove il tempo sembra fermarsi in un istante assoluto, assolato, che non sa trovare pace.

Il senso dell’estate per Campana

Campana capovolge la retorica dell’estate. Dove molti cantano la stagione della vita e del raccolto, lui ne coglie la putrefazione, l’eccesso, la decomposizione.

È un’estate che avvelena, che incanta e consuma. Non c’è sollievo né riposo: solo una tensione erotica, visionaria, che rasenta l’allucinazione.

“… e la piaga rossa della sera / Sanguina ancora lenta / Sui tetti e sui cuori, / Putredine di rosa…”

I versi si chiudono con un’immagine fortissima: la sera è una piaga che sanguina, mentre la rosa – tradizionalmente emblema di bellezza e amore – diventa putrefatta. È l’estate della malattia, della passione che si contorce e muore, dell’amore che non consola. Quella piaga rossa è il cielo al tramonto, ma anche la ferita dell’anima, il calore estremo che non dà vita ma porta a uno stadio di corruzione.

In poche righe, Campana riesce a condensare un’intera visione decadente del mondo.

Un’estate simbolista

L’immaginario di Campana attinge a piene mani dalla tradizione simbolista e decadente europea. C’è qualcosa di Rimbaud, di Verlaine e, soprattutto, dell’ultimo Baudelaire.

In questa lirica la luce è ambigua. Il profumo della rosa che si contamina, la bellezza mai separata dalla rovina. Ma tutto questo è rielaborato in chiave personale, viscerale, italiana: Campana infonde nel simbolismo una carnalità mai puramente estetica, sempre dolorosa, pulsante.

Dino Campana: poeta dell’ombra e del corpo

Per capire fino in fondo “L’invetriata”, bisogna guardare a chi era Dino Campana: nato a Marradi nel 1885, visse una vita erratica, travagliata, segnata dalla malattia mentale e dal rifiuto delle convenzioni.

Pubblicò i suoi “Canti Orfici” dopo mille peripezie, in edizione autoprodotta, e fu internato pochi anni dopo in un manicomio, dove rimase fino alla morte. Nella sua poesia non c’è mai compiacimento formale: tutto è urgenza, tensione, scontro tra il mondo esterno e l’inconscio.

I suoi versi bruciano, perché vengono da una zona non mediata del sé, dove l’immagine poetica è corpo, è dolore, è visione.

In questo, Campana è modernissimo. E “L’invetriata” è uno dei testi in cui questa poetica si cristallizza meglio.

Un’estate che è anche specchio

“L’invetriata” è dunque un’estate interiore, e come ogni vera poesia estiva, non parla solo di caldo o di luce, ma di ciò che accade quando il tempo sembra rallentare e le emozioni si fanno più forti. È una poesia da leggere in silenzio, magari in una sera d’estate in cui tutto sembra immobile e qualcosa ci brucia dentro senza motivo apparente.

Quella finestra è anche la nostra: quella da cui guardiamo il mondo, convinti di esserne al riparo, ma pronti a lasciarci attraversare da una luce che, a volte, non guarisce. Perché non tutte le estati fanno bene. Alcune ci segnano. E la poesia vera – quella di Campana – ce lo dice senza paura.

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