“Le Danaidi” è un breve componimento che Salvatore Quasimodo scrive nella stagione in cui il mito classico torna ad affiorare nella sua poetica post-ermetica: in pochi versi, le figura come creature immortali, simbolo di colpevolezza umana in lotta tra desiderio e condanna.
L’autore, nato a Modica nel 1901 e cresciuto tra i paesaggi aridi della Sicilia, porta con sé la memoria greca della sua terra. Dopo gli anni ermetici, il poeta apre la sua parola a un orizzonte più vasto, recuperando immagini e figure del mondo antico non come semplice ornamento, ma come specchio di una condizione umana eterna: colpa, espiazione, fatica senza fine; metafore che continua a usare di volta in volta, con sagacia, attraverso il suo sentire.
È il caso di questa poesia, che seppur non racconta l’intero mito, ne coglie una scena immobile dove le Danaidi, figure selvagge e prive di grazia femminile, addestrate alla corsa e alla caccia, sono immerse in un paesaggio esotico, tra resine e datteri… Un paesaggio che ricorda molto il sud Italia, con i suoi profumi e i suoi sapori di arance e limoni, con la sua vitalità che Quasimodo cerca di rendere sospesa tra versi di eros e morte, tra destino e condanna.
“Le Danaidi” (1958) di Salvatore Quasimodo
Non avevano sguardo né forma d’uomini,
né corpo simile a donne:
su carri da corsa nude s’addestravano
lungo le selve; e spesso nelle cacce
allietavano la mente
o cercando la resina negli alberi d’incenso
e gli odorosi datteri o la cassia – i teneri
semi di Siria.
Mito e identità ferita
Perché Quasimodo sceglie le Danaidi? Probabilmente perché il loro mito incarna una tensione universale: il contrasto tra la vita e la pena, tra l’impulso vitale e la condanna eterna.
Le cinquanta figlie di Danao, costrette a sposare i cugini, li uccidono nella notte di nozze.
Come punizione, nell’Ade, dovranno riempire d’acqua un’anfora senza fondo, in una fatica infinita.
Nei versi del poeta, non vediamo il castigo, ma la vita prima della colpa: le Danaidi sono creature istintive, libere, lontane dall’immagine della donna che resta in casa a rassettare e cucinare. C’è in loro una forza pagana, quasi animalesca, che affascina Quasimodo — forse perché riflette il conflitto irrisolto tra natura e legge, tra innocenza e responsabilità — e che andrebbe riscoperta.
La poesia è un modo per interrogare la radice oscura della colpa, ma anche un modo per cercare un paragone dell’uomo e della donna nelle Danaidi. Quasimodo, reduce dalle tragedie della guerra e dalla crisi dell’uomo moderno, trova in questo mito un’immagine della nostra condizione: cercare la libertà e ritrovarsi incatenati nella colpa, nelle mostruosità. Erano davvero colpevoli? Hanno agito per colpa, per desiderio, o per necessità?
Le Danaidi: mito di colpa e fatica
Il mito delle Danaidi affonda nella mitologia greca. Figlie di Danao, re di Argo, furono costrette a sposare i cinquanta figli di Egitto. Ma la volontà paterna le spinse a un gesto estremo: uccidere i mariti nella notte di nozze. Solo una di loro, Ipermestra, risparmiò il consorte per amore.
La pena che le attese nell’Ade è diventata proverbiale: riempire per l’eternità un vaso bucato, gesto inutile e infinito…
Questo destino le assimila alle grandi figure del mito punite per superbia o ribellione, come Sisifo o Prometeo. Ma nelle Danaidi la colpa si mescola alla necessità: non è scelta eroica, è imposizione. Sono vittime e carnefici allo stesso tempo.
Quasimodo, evocando il loro mondo primitivo — le cacce, i carri, il contatto con la natura — sembra ricordarci che dietro la colpa c’è sempre una vita che voleva fiorire.
Analisi dei passaggi chiave
“Non avevano sguardo né forma d’uomini, / né corpo simile a donne”
Con questo verso, Quasimodo figura le Danaidi come creature a sé: oltre i generi, oltre la normalità. Le rende speciali e allo stesso tempo delle figure in cui potersi rispecchiare, leggendo.
“Su carri da corsa nude s’addestravano / lungo le selve”
L’immagine della nudità accentua la loro natura primitiva e guerriera. Non sono spose mansuete, ma creature che conoscono la velocità, la fatica, il contatto con la terra. È un ribaltamento del ruolo femminile nella cultura greca tradizionale, che Quasimodo sottolinea con forza.
“E spesso nelle cacce allietavano la mente”
La caccia è svago, ma anche esercizio di potere. Le Danaidi non appartengono alla sfera domestica: vivono nel paesaggio aperto, condividendo riti maschili. Questo le avvicina alle figure di Artemide.
Quasimodo e il mito: una voce del Novecento
Salvatore Quasimodo (1901-1968), premio Nobel per la Letteratura nel 1959, fu voce emblematica del Novecento italiano. Voce chiave dell’Ermetismo, dopo la guerra aprì la sua poesia a temi civili e universali: nei suoi ultimi libri, il mito antico diventa materia viva. Non come rifugio nostalgico, ma come chiave per leggere le crisi moderne.
Poesie come “Le Danaidi” nascono da questa esigenza: trovare nel passato figure che raccontano il suo presente. Così il poeta siciliano trasforma il mito in specchio dell’uomo contemporaneo, diviso tra il richiamo della natura e le catene della storia.