“L’animale che siamo”, quella zona d’ombra che cerchiamo disperatamente di nascondere. Per proteggerci, per sopravvivere. Ad essa, alla parte più vulnerabile di noi, parla Mariangela Gualtieri nella sua straordinaria poesia.
“L’animale che siamo” di Mariangela Gualtieri
L’animale che siamo lo sa bene –
vede il più folle passo che ci attende
lo spalancato abisso che ci chiama.L’animale,
l’animale che siamo dorme male –
è atterrito.Sua è la stanchezza in cui ci consumiamo.
Noi dormivamo e lui restava teso, noi leggevamo
e lui ci strattonava, noi ridevamo e lui no
non rideva.Io ascolto lo sgomento dell’animale che sono.
Gli accarezzo il petto nel mio petto.
Appoggio la fronte alla sua zampa-mano.
Sono al mondo. Siamo. Vorrei
fare un pianto per tutti. Per tutto.Mi appaiono i miliardi di animali
che teniamo rinchiusi malamente
e poi mangiamo. Vedo i musi. I becchi.
Le squame sanguinanti. Ho pena.
E l’umano guerreggiato. E quelli che hanno
fame. Quando l’orrore è grande
non si piange nemmeno.Tieni la mia voce. Sono capace
di dare solo questo. Tieni
le mie parole. Mi svegliano la notte
per uscire da me e mettersi sul foglio.
Solo questo poco riesco a fare.Benvenuto, dolore. Mio animale.
Guidami tu – ora.
Il significato di questa poesia
Dove leggere “L’animale che siamo”
Nel 2024, Mariangela Gualtieri è tornata in libreria con Ruvido umano, un libro che è carne viva, tremore, parola che cerca di reggere l’urto del dolore e del disorientamento. La sezione “Marzo 2020 e dintorni”, a cui appartiene “L’animale che siamo”, è dedicata al momento sospeso della pandemia: giorni di paura, clausura, risveglio forzato della coscienza.
Gualtieri, con la sua consueta tensione etica e spirituale, raccoglie l’eco di quei mesi, ma non si limita a raccontarli: li attraversa con il corpo, li restituisce con l’ascolto del “sottovoce” del mondo. L’animale evocato nella poesia non è solo simbolo di una condizione esistenziale, ma anche figura reale e ferita, compagna della nostra umanità dolente.
Lo stile della poesia
Lo stile di Gualtieri in questa poesia è, come sempre, misurato e vibrante. Il ritmo è spezzato da enjambement, come se la voce poetica vacillasse nel dire ciò che è difficile da nominare.
Le immagini sono corporee e immediate: “accarezzo il petto nel mio petto”, “appoggio la fronte alla sua zampa-mano”.
C’è una tenerezza animalesca, viscerale, che attraversa i versi, e insieme una consapevolezza lancinante.
Le parole non sono decorative, ma necessarie: nascono da notti insonni, vengono a bussare, chiedono di essere scritte perché il mondo è troppo pieno di silenzio.
Le ripetizioni, le anafore (“l’animale… l’animale…”, “noi… noi…”, “tieni… tieni…”) creano un’onda emotiva che avvolge e trascina, lasciando il lettore in uno stato di commossa vigilanza.
La nostra parte più vulnerabile
Nel cuore della poesia, Gualtieri ci porta a riconoscere l’animale interiore che abita ciascuno di noi: stanco, insonne, impaurito.
È la parte più vera e silenziosa dell’essere umano, quella che avverte lo “spalancato abisso”, che soffre inascoltata mentre la coscienza sociale si distrae. Ma la poesia si apre anche alla compassione universale: nei versi in cui la poetessa immagina “i miliardi di animali che teniamo rinchiusi malamente e poi mangiamo”, la voce individuale diventa coralità, abbraccio.
E poi ancora “l’umano guerreggiato”, “quelli che hanno fame”: è il dolore del mondo, nella sua vastità che atterrisce. Eppure, la poesia non cede al nichilismo.
Al contrario, propone un gesto minimo, umile, potentissimo: “tieni la mia voce”, “tieni le mie parole”. È ciò che resta quando tutto crolla: la parola come dono, come tentativo di cura, come offerta di sé.
In “L’animale che siamo” c’è tutto il rovello dell’essere umani e tutto il desiderio di restarlo. È una poesia che non consola, ma accompagna. Che non fugge la notte, ma vi cammina dentro, portando in mano una piccola luce tremante: quella della poesia, appunto.