La tregua di Primo Levi è una poesia che attraverso la ripetizione dello stesso “comando” esprime prima l’incubo della tragedia, della persecuzione, della barbarie e, poi, la voglia di rinascere, di ripartire per affrontare di nuovo la vita.
La poesia fu scritta l’11 gennaio del 1946 ed apre l’omonimo libro, La tregua, di Primo Levi, realizzato in gran parte tra il 1961 e il 1962, anche se alcuni capitoli alcuni capitoli erano stati scritti già nel 1947–1948.
Il libro che vinse il Premio Campiello e fu finalista al Premio Strega, fu pubblicato per la prima volta nel 1963. La tregua può essere considerato il seguito di “Se questo è un uomo“, e racconta il ritorno a casa dello scrittore dopo la sua permanenza nel campo di concentramento di Auschwitz.
Ma leggiamo questa stupenda poesia di Primo Levi per coglierne le emozioni ed il significato.
La tregua di Primo Levi
Sognavamo nelle notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
Tornare; mangiare; raccontare.
Finché suonava breve sommesso
Il comando dell’alba:
«Wstawać»;
E si spezzava in petto il cuore.Ora abbiamo ritrovato la casa,
Il nostro ventre è sazio,
Abbiamo finito di raccontare.
È tempo. Presto udremo ancora
Il comando straniero:
«Wstawać».11 gennaio 1946.
Notti diverse ma con lo stesso terrore
La tregua è una poesia di Primo Levi che ci offre in due parti le emozioni di chi ha dovuto vivere la tragedia dell’Olocausto, pur avendo avuto la fortuna di sopravvivere a allo sterminio. È un tributo alla “Memoria” ed è la testimonianza attiva di chi non può dimenticare cosa significa la barbarie umana.
La tregua dovrebbe fare riflettere su cosa può provocare la furia omicida dell’uomo e bisogna avere la forza di “alzarsi” sempre qualsiasi sia la prova che si è costretti a vivere. Quando si ha la fortuna di poter tornare a casa, di sopravvivere ad una tragedia come l’Olocausto, la vita ti segna per sempre e non si può fare finta che non sia accaduto nulla.
“Alzarsi”, quel comando dei soldati tedeschi non smette mai di ripetersi, e in tal senso Primo Levi sembra proprio dare una scossa alla memoria di tutti, perché se si dimentica la Shoah, il pericolo che la tragedia si possa ripetere è sempre in agguato.
La tregua è composta da quattordici versi ed è profondamente contestualizzata con il contenuto dell’omonimo libro in cui Levi racconta il ritorno a casa con ottimismo e speranza. Fu scritta il giorno dopo di Shemà di Primo Levi la poesia che apre Se questo è un uomo, e crea inevitabilmente una simmetria tra le storie dei due libri.
Nel componimento troviamo due parti ben separate in cui vengono descritti due tipi di sonno. Nella prima parte della poesia Primo Levi racconta la notte e il risveglio violenti del periodo di detenzione nel campo di concentramento di Auschwitz. La violenza era tale in quel luogo che anche i sogni si facevano feroci, proprio come feroce era il comando “Alzarsi”, in polacco “Wstawac”.
Una volta tornato a casa, però il sonno dovrebbe essere conciliane e le notti più rilassate perchè quello è ormai il luogo sicuro. Eppure, il terrore, la paura sembrano non andare mai via. C’è sempre la sensazione che quel terrorizzante comando possa tornare a farsi sentire.
Levi stesso chiarisce il significato della pagina finale di La tregua. Nell’edizione scolastica del 1965 Levi così spiega e chiarisce il senso finale del libro e della ultima pagina:
“Questa pagina, che chiude il libro su una nota inaspettatamente grave, chiarisce il senso della poesia posta in epigrafe, e ad un tempo giustifica il titolo. Nel sogno, il Lager si dilata ad un significato universale, è divenuto il simbolo della condizione umana stessa e si identifica con la morte, a cui nessuno si sottrae.
Esistono remissioni, “tregue”, come nella vita del campo l’inquieto riposo notturno; e la stessa vita umana è una tregua, una proroga; ma sono intervalli brevi, e presto interrotti dal “comando dell’alba”, temuto ma non inatteso, dalla voce straniera (“Wstawać” significa “Alzarsi”, in polacco) che pure tutti intendono e obbediscono.
Questa voce comanda, anzi invita alla morte, ed è sommessa perché la morte è iscritta nella vita, è implicita nel destino umano, inevitabile, irresistibile; allo stesso modo nessuno avrebbe potuto pensare di opporsi al comando del risveglio, nelle gelide albe di Auschwitz.”
La paura non ti abbandona mai più
Come è comprensibile il tema della poesia è sempre la “paura” che quell’esperienza nei campi di sterminio lascia agli ebrei sopravvissuti. Morte, fame, freddo sono le paure che non lasciano mai più la memoria. Così come la cattiveria di quei soldati simili a delle forze infernali, a dei diavoli restano impresse per sempre nell’anima e nei sogni dei sopravvissuti.
Nella prima strofa è evidente l’ambientazione e l’esperienza del campo di sterminio, nella seconda strofa vive la tranquillità del ritorno a casa. Bisogna reagire, tornare a vivere, la vita continua, ma la paura di quel comando, “alzarsi”, sembra non abbandonare mai. È un incubo.
La paura dona un quadro della psicologia che ha coinvolto moltissimi sopravvissuti per i quali quell’incubo da un lato distrugge l’esistenza, dall’altro diventa la forza per non dimenticare mai, per trasferire al mondo, alle nuove generazione quali conseguenze può generare la cattiveria umana.
Una lezione quella di Primo Levi, che molto probabilmente non abbiamo imparato, anche perché, per fortuna, non l’abbiamo vissuta. Ma la memoria sembra essere sensibile al tempo, sembra diventare sempre più volatile, i libri, le poesie, le testimonianze di chi ha subito il martirio, non riescono a lasciare il segno.
Per questo è importante condividere il messaggio di coloro che hanno lasciato traccia di quella barbarie, denuncia dello sterminio, racconto delle sofferenze, immagini della morte e della tragedia. Per questo motivo non bisogna abbassare la guardia, nella consapevolezza che bisogna tutti diventare migliori.