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La poesia “A se stesso” di Leopardi, il soliloquio dopo la fine di un amore

Poesia di stampo sicuramente autobiografico, ci parla dei sentimenti di Giacomo Leopardi nei confronti di Fanny Targioni Tozzetti, dopo la fine della storia.

Composta nel maggio del 1833, “A se stesso” è una poesia dallo stampo fortemente autobiografico. Pubblicata poi nei Canti (1835), Leopardi descrive la fine della passione nutrita per Fanny Targioni Tozzetti. In un doloroso soliloquio il poeta analizza ciò che c’è alla fine di una passione, quando ci si ritrova arresi, a terra. Effetti devastanti, quelli di cui si parla, dati di quell’«inganno estremo» (v. 2). Uno stile violento, spezzato, crudele, che affonda le sue radici nell’animo iper sensibile di Leopardi.

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A cosa porta la fine di una passione?

Il cuore stanco e giace fermo, posato. L’inganno, l’illusione dell’amore è palese e il desiderio ormai si è spento. Il pessimismo estremo di Giacomo Leopardi, in questa poesia dove esprime il suo dolore dopo la fine della passione con la sua amata, si sviluppo in tutto il componimento. La terra, la realtà tutta diventa “nulla” e il mondo diventa di “fango”
Il destino crudele uccide l’animo umano, per l’ultima volta si percepisce la disperazione.
L’occhio del poeta vede davanti a sé il vuoto, la più estrema negatività.
Tutto sembra diventare informe e senza senso.

Una poesia scritta da Leopardi, appunto, a se stesso, per parlarsi ed analizzare la situazione più dolorosa che l’amore può portare a vivere: la fine. Cosa si prova alla fine di una passione? Di sicuro l’immagine del cuore posato, stanco, raffigura concretamente e perfettamente l’idea del dolore.

A se stesso, la poesia

Or poserai per sempre,
Stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
Ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, nè di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
L’ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera,
E l’infinita vanità del tutto.

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