La mia sera (1900) di Giovanni Pascoli, poesia che trasforma il caos in serenità

27 Dicembre 2025

Scopriamo la bellezza dei versi de "La mia sera", la poesia di Giovanni Pascoli che augura la tanto desiderata quiete dopo la tempesta.

La mia sera (1900) di Giovanni Pascoli, poesia che trasforma il caos in serenità

La mia sera è una poesia di Giovanni Pascoli è una delle poesie più intime e rivelatrici di Giovanni Pascoli. In pochi versi, il poeta mette in scena un momento raro e prezioso, l’approdo a una serenità inattesa, conquistata dopo una vita segnata dal dolore, dall’inquietudine e dalla perdita.

Pascoli affida alla natura il compito di tradurre in immagini il proprio stato d’animo. Il paesaggio serale diventa specchio dell’anima, luogo simbolico in cui il tumulto del giorno si placa e lascia emergere una gioia leggera, quasi timida. Questa poesia rappresenta un punto di quiete nella parabola esistenziale pascoliana. Non una pace trionfante o definitiva, ma una tregua dolce, fragile, profondamente umana.

Una poesia che sembra accompagnare agli ultimi giorni dell’anno, offrendo quella tenera serenità che dovrebbe essere il più grande auspicio per l’anno nuovo. Quando il Capodanno è vicino c’è sempre bisogno della bellezza della quiete, della pace, della serenità.

La mia sera fu composta nel 1900 e fa parte della raccolta di poesie Canti di Castelvecchio di Giovanni Pascoli, pubblicata per la prima volta nel 1903.

Leggiamo questa meravigliosa poesia di Giovanni Pascoli per coglierne il benaugurante significato e prenderla come stimolo per iniziare con il piede giusto il nuovo anno.

La mia sera di Giovanni Pascoli

Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c’è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!

Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell’aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell’umida sera.

È, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d’oro.

O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell’ultima sera.

Che voli di rondini intorno!
che gridi nell’aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l’ebbero intera.
Nè io… e che voli, che gridi,
mia limpida sera!

Don… Don… E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra…
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch’io torni com’era…
sentivo mia madre… poi nulla…
sul far della sera.

L’inquietudine lascia spazio alla bellezza della serenità

La mia sera è una poesia di Giovanni Pascoli che nasce da un movimento lento che conduce dal disordine alla quiete. Il paesaggio serale accompagna questo passaggio senza clamore, mostrando come anche ciò che è stato attraversato dalla tempesta possa trovare una forma nuova, più mite, nel tempo che si placa.

Le immagini naturali suggeriscono che il dolore non scompare, ma cambia intensità e significato. I suoni si attenuano, la luce si fa morbida, il cielo si colora di tonalità che trasformano ciò che prima appariva minaccioso. In questo equilibrio ritrovato prende forma una serenità fragile, fatta di ascolto e di misura.

La poesia affida alla sera il compito di raccogliere ciò che il giorno ha disperso. La pace che emerge non è una conquista definitiva, ma una tregua possibile, un momento in cui l’anima può riposare e riconciliarsi con ciò che ha vissuto.

Da questa tensione tra inquietudine e quiete nasce il senso profondo del testo. Ogni verso contribuisce a costruire un cammino interiore che non promette soluzioni, ma apre uno spazio di armonia, affidato alla capacità di accogliere la luce che resta dopo il temporale.

Il passaggio dal fragore del giorno alla quiete della sera

La poesia si apre con un contrasto netto tra due momenti del tempo, il giorno e la sera. Il giorno viene descritto come uno spazio di eccesso, attraversato da lampi e scoppi, immagini che evocano un tumulto continuo, quasi violento. La sera, invece, entra in scena come un approdo naturale, un tempo diverso che non cancella ciò che è stato, ma lo placa.

Le stelle, definite “tacite”, non illuminano con forza, ma accompagnano con discrezione. Nei campi, il verso sommesso delle ranelle e il tremolio delle foglie dei pioppi costruiscono un paesaggio in cui ogni elemento sembra aver trovato una nuova misura. In questa atmosfera prende forma una gioia leggera, fragile, che non esplode ma scorre, come se fosse finalmente possibile respirare.

Il celebre verso conclusivo della strofa, “Che pace, la sera”, non ha il tono di un’esclamazione trionfante. Suona piuttosto come una constatazione sorpresa, quasi incredula, di fronte a una calma che arriva dopo un lungo disordine.

Il dolore che si attenua e diventa suono lontano

Nella seconda strofa il paesaggio continua a riflettere uno stato interiore. Il cielo serale viene definito “tenero e vivo”, mentre il rivo che scorre accanto alle ranelle emette un suono monotono, simile a un singhiozzo. È un’immagine centrale nella poesia, perché introduce una trasformazione del dolore.

Il tumulto della tempesta non scompare del tutto, ma si riduce a un’eco sommessa. Quel “dolce singulto” suggerisce un pianto che si sta esaurendo, come accade a un bambino dopo una lunga crisi di pianto. La sofferenza perde la sua violenza e si trasforma in qualcosa di sopportabile, quasi intimo.

Il paesaggio non nega ciò che è accaduto, ma lo assorbe. La sera diventa così uno spazio in cui anche il dolore può trovare una forma più mite.

Dalla tempesta alla trasfigurazione della luce

Nella terza strofa la tempesta viene dichiarata finita. L’immagine del rivo canoro sintetizza il passaggio definitivo dal caos all’armonia. Ciò che resta dei fulmini sono solo tracce leggere nel cielo, cirri colorati di porpora e d’oro, segni visivi che hanno perso ogni minaccia.

La violenza si è trasformata in bellezza. La luce del tramonto agisce come un filtro che rielabora l’esperienza del dolore e la rende contemplabile. Il paesaggio serale non è più scenario di conflitto, ma luogo di metamorfosi.

Il riposo dell’anima e la riconciliazione con il passato

Con la quarta strofa l’attenzione si sposta esplicitamente all’interno. Il poeta si rivolge al proprio dolore, definendolo stanco e invitandolo al riposo. L’immagine della nube, prima nera e ora rosa, sintetizza una delle intuizioni più profonde del testo.

Ciò che durante il giorno appariva opprimente, alla sera cambia colore e significato. Il passato non viene cancellato, ma riletto alla luce di una nuova disposizione interiore. La serenità non nasce dall’assenza di sofferenza, ma dalla sua trasformazione.

La sera come spazio vitale e condiviso

Nella quinta strofa la scena si anima di nuovo. Le rondini tornano a volare, i gridi riempiono l’aria serena, la fame del giorno si prolunga in una cena finalmente possibile. Anche qui la natura riflette una condizione esistenziale.

Il riferimento ai nidi che durante il giorno non avevano avuto abbastanza suggerisce una mancanza antica, una privazione che riguarda anche il poeta. La “limpida sera” diventa allora il tempo in cui qualcosa può finalmente compiersi, anche se in forma semplice e provvisoria.

Il ritorno all’infanzia e il desiderio di abbandono

L’ultima strofa chiude la poesia su un piano profondamente intimo. Il suono delle campane e le voci che ripetono “Dormi” assumono il tono di una ninna nanna. La sera si carica di una dimensione affettiva che riporta il poeta all’infanzia e alla madre.

Il ricordo emerge in modo sfumato, senza descrizioni dirette, come accade nei momenti più autentici della memoria. La pace serale si trasforma in desiderio di abbandono fiducioso, in un sonno che somiglia a una protezione originaria.

La poesia si spegne così, sul confine tra veglia e silenzio, lasciando l’impressione di una quiete raggiunta senza clamore, come un dono fragile che chiede solo di essere accolto.

Il “respiro felice” dopo una lunga inquietudine

La mia sera nasce da un’esistenza attraversata da fratture profonde. L’inquietudine che accompagna il poeta non è episodica, ma strutturale, legata a una storia personale segnata da perdite, sradicamenti, ferite mai del tutto rimarginate. In questo contesto, la quiete che emerge nei versi non assume il valore di una conquista stabile, ma di un evento raro, quasi inatteso.

La sera rappresenta un punto di sospensione. È il momento in cui il dolore, che durante il giorno si manifesta con la forza del tumulto, perde intensità e si lascia attraversare senza opporre resistenza. Giovanni Pascoli non smette di portarlo con sé, ma riesce finalmente a respirare dentro di esso. Questo respiro felice non coincide con l’oblio, bensì con una forma di accettazione silenziosa.

La natura diventa il luogo in cui questa possibilità prende corpo. I suoni attenuati, le luci morbide, i movimenti minimi restituiscono un ordine che non pretende di cancellare il passato. In quella calma serale, l’anima trova una tregua, una pausa che permette di sostare senza essere travolta dal ricordo e dalla paura.

Questo momento di serenità ha il valore di una rivelazione fragile. Mostra che la pace può esistere anche all’interno di una vita inquieta, senza contraddirla. È una felicità breve, quasi timida, che non promette durata, ma lascia una traccia profonda. In quella traccia si riconosce la possibilità di continuare, con uno sguardo meno lacerato e una disponibilità nuova verso il silenzio che cura.

Ecco perché se ancora mancano pochi giorni al Capodanno, abbiamo voluto condividere questa stupenda poesia. Che l’anno nuovo sia, per tutti, bello e sereno.

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