La Ginestra o Il fiore del deserto di Giacomo Leopardi è una poesia che pubblichiamo perché il poeta di Recanati utilizza questo fiore come simbolo del coraggio e della resistenza estrema di fronte a tutte le difficoltà che la vita ci pone davanti.
In realtà, la poesia mette al centro il concetto di solidarietà, di aiuto reciproco che dovremmo dimostrare per sopravvivere alle asperità che la vita ci mette davanti. Gli uomini devono prendere coscienza che di fronte alla natura non si può che essere che fragili, piccoli, indifesi, nulli.
L’inizio dell’anno, sia chiaro, è una mera convenzione, ma ci sonon dei momenti in cui dobbiamo porci degli obiettivi, ma, soprattutto, prendere coscienza che la vita va vissuta non in balia degli eventi, ma mettendoci alla guida del nostro destino. Qualsiasi evento, anche il, peggiore si verifichi, serve tirare fuori la necessaria dignità e volontà.
La ginestra o Il fiore del deserto fu scritta nella primavera del 1836 a Torre del Greco nella villa Ferrigni, ed è il XXXIV dei Canti di Giacomo Leopardi. La poesia fu pubblicata postuma nell’edizione napoletana dei Canti, curata da Antonio Ranieri nel 1845.
Leggiamo i 317 versi della poesia di Giacomo Leopardi vivendone come sempre tutta la meraviglia.
La ginestra o Il fiore del deserto di Giacomo Leopardi
Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι μᾶλλον
τὸ σκότος ἢ τὸ φῶςE gli uomini vollero piuttosto le tenebre
che la luce.
Giovanni, III, 19.Qui su l’arida schiena
del formidabil monte
sterminator Vesevo,
la qual null’altro allegra arbor né fiore,
tuoi cespi solitari intorno spargi,
odorata ginestra,
contenta dei deserti. Anco ti vidi
de’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
che cingon la cittade
la qual fu donna de’ mortali un tempo,
e del perduto impero
par che col grave e taciturno aspetto
faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
lochi e dal mondo abbandonati amante
e d’afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
di ceneri infeconde, e ricoperti
dell’impietrata lava,
che sotto i passi al peregrin risona;
dove s’annida e si contorce al sole
la serpe, e dove al noto
cavernoso covil torna il coniglio;
fûr liete ville e cólti,
e biondeggiâr di spiche, e risonâro
di muggito d’armenti;
fûr giardini e palagi,
agli ozi de’ potenti
gradito ospizio; e fûr cittá famose,
che coi torrenti suoi l’altèro monte
dall’ignea bocca fulminando oppresse
con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
una ruina involve,
ove tu siedi, o fior gentile, e quasi
i danni altrui commiserando, al cielo
di dolcissimo odor mandi un profumo,
che il deserto consola. A queste piagge
venga colui che d’esaltar con lode
il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
è il gener nostro in cura
all’amante natura. E la possanza
qui con giusta misura
anco estimar potrá dell’uman seme,
cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
con lieve moto in un momento annulla
in parte, e può con moti
poco men lievi ancor subitamente
annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
son dell’umana gente
«le magnifiche sorti e progressive».Qui mira e qui ti specchia,
secol superbo e sciocco,
che il calle insino allora
dal risorto pensier segnato innanti
abbandonasti, e vòlti addietro i passi,
del ritornar ti vanti,
e procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,
di cui lor sorte rea padre ti fece,
vanno adulando, ancora
ch’a ludibrio talora
t’abbian fra sé. Non io
con tal vergogna scenderò sotterra;
ma il disprezzo piuttosto che si serra
di te nel petto mio,
mostrato avrò quanto si possa aperto;
bench’io sappia che obblio
preme chi troppo all’etá propria increbbe.
Di questo mal, che teco
mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertá vai sognando, e servo a un tempo
vuoi di novo il pensiero,
sol per cui risorgemmo
della barbarie in parte, e per cui solo
si cresce in civiltá, che sola in meglio
guida i pubblici fati.
Cosí ti spiacque il vero
dell’aspra sorte e del depresso loco
che natura ci die’. Per queste il tergo
vigliaccamente rivolgesti al lume
che il fe’ palese; e, fuggitivo, appelli
vil chi lui segue, e solo
magnanimo colui
che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
fin sopra gli astri il mortal grado estolle.Uom di povero stato e membra inferme
che sia dell’alma generoso ed alto,
non chiama sé né stima
ricco d’òr né gagliardo,
e di splendida vita o di valente
persona infra la gente
non fa risibil mostra;
ma sé di forza e di tesor mendíco
lascia parer senza vergogna, e noma
parlando, apertamente, e di sue cose
fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
non credo io giá, ma stolto,
quel che nato a perir, nutrito in pene,
dice: — A goder son fatto, —
e di fetido orgoglio
empie le carte, eccelsi fati e nòve
felicitá, quali il ciel tutto ignora,
non pur quest’orbe, promettendo in terra
a popoli che un’onda
di mar commosso, un fiato
d’aura maligna, un sotterraneo crollo
distrugge sí, ch’avanza
a gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
ch’a sollevar s’ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire
fraterne, ancor piú gravi
d’ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l’uomo incolpandodel suo dolor, ma dá la colpa a quella
che veramente è rea, che de’ mortali
madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccom’è il vero, ed ordinata in pria
l’umana compagnia,
tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune. Ed alle offese
dell’uomo armar la destra, e laccio porre
al vicino ed inciampo,
stolto crede cosí, qual fôra in campo
cinto d’oste contraria, in sul piú vivo
incalzar degli assalti,
gl’inimici obbliando, acerbe gare
imprender con gli amici,
e sparger fuga e fulminar col brando
infra i propri guerrieri.
Cosí fatti pensieri
quando fien, come fûr, palesi al volgo;
e quell’orror che primo
contra l’empia natura
strinse i mortali in social catena,
fia ricondotto in parte
da verace saper; l’onesto e il retto
conversar cittadino,
e giustizia e pietade altra radice
avranno allor che non superbe fole,
ove fondata probitá del volgo
cosí star suole in piede
quale star può quel c’ha in error la sede.Sovente in queste rive,
che, desolate, a bruno
veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
seggo la notte; e su la mesta landa,
in purissimo azzurro
veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
cui di lontan fa specchio
il mare, e tutto di scintille in giro
per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
ch’a lor sembrano un punto,
e sono immense, in guisa
che un punto a petto a lor son terra e mare
veracemente; a cui
l’uomo non pur, ma questo
globo, ove l’uomo è nulla,
sconosciuto è del tutto; e quando miro
quegli ancor piú senz’alcun fin remoti
nodi quasi di stelle,
ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
e non la terra sol, ma tutte in uno,
del numero infinite e della mole,
con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
o sono ignote, o cosí paion come
essi alla terra, un punto
di luce nebulosa; al pensier mio
che sembri allora, o prole
dell’uomo? E rimembrando
il tuo stato quaggiú, di cui fa segno
il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
che te signora e fine
credi tu data al Tutto; e quante volte
favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
per tua cagion, dell’universe cose
scender gli autori, e conversar sovente
co’ tuoi piacevolmente; e che, i derisi
sogni rinnovellando, ai saggi insulta
fin la presente etá, che in conoscenza
ed in civil costume
sembra tutte avanzar; qual moto allora,
mortal prole infelice, o qual pensiero
verso te finalmente il cor m’assale?
Non so se il riso o la pietá prevale.Come d’arbor cadendo un picciol pomo,
cui lá nel tardo autunno
maturitá senz’altra forza atterra,
d’un popol di formiche i dolci alberghi
cavati in molle gleba
con gran lavoro, e l’opre,
e le ricchezze ch’adunate a prova
con lungo affaticar l’assidua gente
avea provvidamente al tempo estivo,
schiaccia, diserta e copre
in un punto; cosí d’alto piombando,
dall’utero tonante
scagliata al ciel profondo,
di ceneri e di pomici e di sassi
notte e ruina, infusa
di bollenti ruscelli,
o pel montano fianco
furiosa tra l’erba
di liquefatti massi
e di metalli e d’infocata arena
scendendo immensa piena,
le cittadi che il mar lá su l’estremo
lido aspergea, confuse
e infranse e ricoperse
in pochi istanti: onde su quelle or pasce
la capra, e cittá nove
sorgon dall’altra banda, a cui sgabello
son le sepolte, e le prostrate mura
l’arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
dell’uom piú stima o cura
ch’alla formica: e se piú rara in quello
che nell’altra è la strage,
non avvien ciò d’altronde
fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.Ben mille ed ottocento
anni varcâr poi che sparîro, oppressi
dall’ignea forza, i popolati seggi,
e il villanello intento
ai vigneti, che a stento in questi campi
nutre la morta zolla e incenerita,
ancor leva lo sguardo
sospettoso alla vetta
fatal, che nulla mai fatta piú mite
ancor siede tremenda, ancor minaccia
a lui strage ed ai figli ed agli averi
lor poverelli. E spesso
il meschino in sul tetto
dell’ostel villereccio, alla vagante
aura giacendo tutta notte insonne,
e balzando piú volte, esplora il corso
del temuto bollor, che si riversa
dall’inesausto grembo
sull’arenoso dorso, a cui riluce
di Capri la marina
e di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
del domestico pozzo ode mai l’acqua
fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
desta la moglie in fretta, e via, con quanto
di lor cose rapir posson, fuggendo,
vede lontan l’usato
suo nido, e il picciol campo,
che gli fu dalla fame unico schermo,
preda al flutto rovente,
che crepitando giunge, e inesorato
durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
dopo l’antica obblivion, l’estinta
Pompei, come sepolto
scheletro, cui di terra
avarizia o pietá rende all’aperto;
e dal deserto fòro
diritto infra le file
de’ mozzi colonnati il peregrino
lunge contempla il bipartito giogo
e la cresta fumante,
ch’alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell’orror della secreta notte
per li vacui teatri,
per li templi deformi e per le rotte
case, ove i parti il pipistrello asconde,
come sinistra face
che per vòti palagi atra s’aggiri,
corre il baglior della funerea lava,
che di lontan per l’ombre
rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Cosí, dell’uomo ignara e dell’etadi
ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno
dopo gli avi i nepoti,
sta natura ognor verde, anzi procede
per sí lungo cammino
che sembra star. Caggiono i regni intanto,
passan genti e linguaggi: ella nol vede:
e l’uom d’eternitá s’arroga il vanto.E tu, lenta ginestra,
che di selve odorate
queste campagne dispogliate adorni,
anche tu presto alla crudel possanza
soccomberai del sotterraneo foco,
che ritornando al loco
giá noto, stenderá l’avaro lembo
su tue molli foreste. E piegherai
sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor; ma non eretto
con forsennato orgoglio inver’ le stelle,
né sul deserto, dove
e la sede e i natali
non per voler ma per fortuna avesti;
ma piú saggia, ma tanto
meno inferma dell’uom, quanto le frali
tue stirpi non credesti
o dal fato o da te fatte immortali.
Per resistere alla vita bisogna farsi forza reciprocamente
La Ginestra o Il fiore del deserto è una poesia di Giacomo Leopardi di grande significato e di enorme critica rispetto ad un’epoca che fa della superbia e dell’arroganza degli umani lo spirito più rilevante. Non può esserci ottimismo riguardo alla vita, lo spirito romantico che imperava nel contesto in cui fu scritta la poesia, strideva con la visione razionale, illuministica del poeta di Recanati.
Naturalmente, in Leopardi c’è la rappresentazione negativa della natura, del destino della stessa vita. Gli umani sono condannati a dover subire una vita che per motivi diversi conduce alla perenne infelicità.
L’immagine del Vulcano, che seppur spento, era stato reo della distruzione di Pompei ed Ercolano, diventa il simbolo di un tiranno distruttore, del quale gli uomini sono fragili vittime. La Ginestra è il fiore che offre l’immagine della fragilità umana. La sua bellezza stride con il deserto lavico che la circonda e la sua vita è completamente nelle mani del Vulcano, il quale quando deciderò di svegliarsi, non lascerà spazio al tenero fiore.
Per Giacomo Leopardi tutta l’Umanità è come la “ginestra”, bellissima e allo stesso tempo senza nessuna speranza di poter decidere dal proprio destino, della propria gioia, della propria felicità. Come non essere d’accordo con il poeta marchigiano, quando accadono i cataclismi tutto l’ingegno umano non ha la forza di contrastare la furia distruttiva della Natura.
Ecco perché l’unica via d’uscita di fronte a così tanta fragilità è lo stare insieme, il farsi forza l’uno con l’altro, l’aiutarsi reciprocamente, offrire solidarietà. L’individuo, nel senso egoistico del termine, non può che avere meno possibilità riguardo agli ostacoli che la natura e il destino pongono in essere.
Lo svolgimento della poesia
Nella prima strofa il poeta inizia introducendo la ginestra, grande protagonista della poesia, fiore che vive in solitudine sulle pendici del Vesuvio. La visione di questo magnifico fiore in un contesto desertico lunare, causato dalla furia distruttiva del Vulcano, il quale distrusse città evolute e fiorenti, lasciando solo rovine e cenere. Tutto questo stimola il poeta a paragonare il tragico destino degli umani di fronte alla forza maligna della Natura.
Nella seconda strofa il poeta si scatena contro la cultura dominante del periodo. “Secol sciocco e superbo”, afferma Leopardi, reo di aver abbandonato il pensiero razionale, tipico dell’illuminismo e del Rinascimento, per lasciare spazio alla superbia romantica e in tal modo costringendo tutto il pensiero filosofico ad una naturale regressione.
Nella terza strofa Giacomo Leopardi mette in evidenza la stoltezza e la nobiltà degli umane. Introduce il principio della necessità dell’unione e della solidarietà umana per contrastare la comune nemica ovvero la “natura” e poter così per certi versi tentare di reagire alla misera condizione della vita umana.
Nella quarta strofa continua con il concetto confrontando la piccolezza umana alla vastità dell’Universo. Dio fronte alla vastità del cosmo, dell’Assoluto l’uomo è una piccolo punto infinitesimale, una piccola luce fioca priva di nessuna intensità. Ecco il sarcasmo del poeta che non sa se ridere o avere compassione riguardo ad un’umanità che invece si sente al centro dell’universo.
Nella quinta strofa il poeta si diletta a descrivere con puntiglio la forza distruttiva della natura, di fronte alla quale gli umani non possono in nessun modo fare nulla. Giacomo Leopardi utilizza una similitudine, paragonando ciò che fece il Vesuvio nel 79 d.C. a Ercolano, Pompei e Stabia, al frutto che cade da un albero e senza neppure accorgersene distrugge un intero formicaio. La natura non ha sensibilità, mostra tutta la sua indifferenza di fronte alla sofferenza che possono subire tutti ghli esseri viventi, nessuno escluso.
Nella sesta strofa rende tangibili gli effetti devastanti della natura, i cui effetti per gli esseri viventi possono durare secoli. Il tempo degli uomini è troppo breve rispetto ai cicli naturali. Ciò ribadisce l’indifferenza della natura riguardo alle necessità della vita umana. Il tempo della natura è così dilato da rendere immobile e nullo il concetto umano di esistenza.
Nella settima e ultima strofa Giacomo Leopardi riporta protagonista la bella “Ginestra” e il poeta la elogia segnalandone l’umiltà e il coraggio. La ginestra è consapevole, è il simbolo della razionalità che gli uomini dovrebbero dimostrare, nell’accettare la propria condizione di totale sottomissione di fronte alla natura con grande dignità e intelligenza.
Ciò che invece gli umani, condizionati dalla regressione romantica, non riescono in nessun modo a fare, mostrando tutta la loro stoltezza. La ginestra fragile, nata nel deserto vesuviano, è destinata a soccombere alla forza eruttiva del Vulcano, lasciando spazio a un tono commosso dal lessico vago, ma vive questa condizione con eroica comprensione.