Immagini chiare, cristalline, di un mondo che scorre inesorabile insieme al tempo. Con uno stile inconfondibile e una sensibilità senza eguali, Eugenio Montale racconta, in questa poesia, il passare del tempo e il ruolo salvifico dell’amore. Scopriamo insieme “La canna che dispiuma”.
“La canna che dispiuma” di Eugenio Montale
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La canna che dispiuma
mollemente il suo rosso
flabello a primavera;
la rèdola nel fosso, se la nera
correntìa sorvolata da libellule;
e il cane trafelato che rincasa
col suo fardello in bocca,oggi qui non mi tocca riconoscere;
ma là dove il riverbero più cuoce
e il nuvolo s’abbassa, oltre le sue
pupille ormai remote, solo due
fasci di luce in croce.E il tempo passa.
Il significato di questa poesia
Dove leggere “La canna che dispiuma”
Tra le pieghe più intense e segrete della seconda raccolta poetica di Eugenio Montale, Le occasioni, pubblicata da Einaudi nel 1939, si apre un mondo compatto e affilato, dove l’epifania poetica diventa frammento, rivelazione improvvisa, ferita affiorante.
Composta tra il 1933 e il 1939, l’opera si struttura in più sezioni, tra cui i celebri Mottetti: venti componimenti brevi, essenziali, scritti tra il 1934 e il 1938, che condensano in pochi versi un denso universo di sensazioni, memorie e metafore.
I Mottetti sono il cuore lirico della raccolta, e insieme la sua parte più ellittica e musicale: qui, la poesia si fa enigma, sussurro, eco di qualcosa che è stato e che già si allontana.
In questa sezione si intrecciano due fili portanti: l’evocazione di una figura femminile amata – identificabile con Irma Brandeis, la “Clizia” montaliana – e una riflessione costante sul tempo, sulla memoria, sulla presenza che si fa assenza. Il diciannovesimo Mottetto, noto convenzionalmente per il suo primo verso, “La canna che dispiuma”, ne è esempio emblematico e vertiginoso.
Lo stile della poesia
Questa poesia, così breve eppure così complessa, è costruita con una sintassi franta e selettiva, priva nella prima parte di verbi reggenti, tutta giocata su immagini nominali giustapposte: “La canna che dispiuma / mollemente il suo rosso / flabello a primavera; / la rèdola nel fosso, se la nera / correntìa sorvolata da libellule; / e il cane trafelato che rincasa / col suo fardello in bocca”.
Tutto resta sospeso, come in un limbo visivo. Solo nel verso ottavo arriva la chiave grammaticale e semantica che retroattivamente struttura il senso dell’elenco precedente: “oggi qui non mi tocca riconoscere”. Il soggetto – implicito ma centrale – è il poeta, che registra queste immagini del mondo naturale e domestico, ma si sottrae al loro riconoscimento emotivo.
Le immagini evocate sono tre “fermo-immagine” dolenti: la canna che perde il suo flabello (ventaglio, in latino) proprio in primavera, la rèdola nel fosso attraversato da una corrente nera, sopra cui danzano libellule; e, infine, il cane trafelato, col fardello in bocca, affaticato da una caccia forse vana.
Montale plasma il linguaggio in forme alte, letterarie, con parole rare: rèdola e correntìa sono termini desueti che necessitano di spiegazione – il primo indica un sentiero segnato, il secondo una corrente impetuosa.
Anche nuvolo (usato al posto del più comune “nuvola”) eleva il tono, come oltre che qui va inteso non come “in aggiunta”, ma “al di là”.
Tutto contribuisce a un’atmosfera di straniamento, in cui i suoni si rincorrono – primavera/nera, canna/cane, libellule/flabello, cuoce/croce – creando una rete fitta di richiami fonici e semantici, a compensare la rarefazione della struttura metrica e il limitato impiego di rime canoniche.
Ma il cuore della poesia si accende nei versi finali, quando lo sguardo si sposta “là dove il riverbero più cuoce / e il nuvolo s’abbassa”, oltre le pupille della donna amata, “ormai remote”, e ciò che resta sono “solo due / fasci di luce in croce”.
Un’apparizione minimale e folgorante, che racchiude un’intera visione: due occhi, forse, due raggi, due segni incrociati di luce – emblema della donna-angelo, presenza salvifica e remota che continua a brillare anche nell’assenza.
Qui Montale compie un ribaltamento sottile: nonostante il mondo appaia svuotato e malinconico, qualcosa di puro resiste, incrocia lo sguardo del poeta e lo inchioda alla sua verità. Non è consolazione, ma rivelazione: riconoscere – verbo chiave del componimento – è per Montale sempre un atto profondo, quasi platonico, di conoscenza autentica.
La chiusa isolata
A suggellare il tutto, isolato in coda, dopo uno stacco visivo che ne sottolinea la solennità, arriva il verso finale: “E il tempo passa”.
Una chiusura asciutta, lapidaria, che suona insieme come constatazione e condanna. Tutto ciò che precede – il mondo naturale, la fatica, l’assenza, lo sguardo – è avvolto da questa consapevolezza ineluttabile: il tempo scorre, e con esso si allontanano i ricordi, gli oggetti, gli affetti, lasciando forse solo bagliori incrociati a testimoniare ciò che fu.
Il verso, pur nella sua apparente semplicità, assume un tono sacrale e definitivo, amplificato dal silenzio che lo precede. Non c’è appello, né rifugio. Come spesso accade nei Mottetti, il poeta non offre una morale, ma una visione. Non una risposta, ma una soglia.
In questo diciannovesimo Mottetto, Montale distilla tutta la sua poetica: l’attenzione agli oggetti minimi e quotidiani, l’uso musicale e perturbante del linguaggio, l’ossessione per la perdita e per il tempo che sfugge.
Ma in mezzo al dolore del riconoscere che oggi, qui, nulla può più essere rivissuto o posseduto, si accende la luce incrociata di una memoria affettiva che ancora arde: una croce, sì, ma di luce. E quella luce, sebbene ferisca, illumina.