“Inno al sole” (1954) di Pablo Neruda: la luce che feconda l’anima

7 Luglio 2025

Scopri come Pablo Neruda esprime la potenza del sole nell'anima umana attraverso il suo poema "Inno al sole".

"Inno al sole” (1954) di Pablo Neruda: la luce che feconda l’anima

Pablo Neruda compone “Inno al sole”, dove tra oro, rame e grano, il sole diventa padre e giudice, origine cosmica e ferita interiore. Un canto visionario che intreccia natura e parola, chiedendo al giorno di insegnare il ritmo dell’esistenza.

Neruda non scrive un inno religioso, scrive un inno umano, un’invocazione lucida e potente a un sole che penetra gli angoli più oscuri del vivere, che fa risplendere le mani callose dei contadini, che si posa sugli amanti, che smaschera i bugiardi e non teme la verità. È un sole etico, morale, quasi giudicante nella sua imparzialità.

E ci riguarda tutti, perché brilla in alto nel cielo anche se lo ignoriamo. Splende senza ostacoli in estate, mentre lo malediciamo per il troppo caldo e i campi arsi. Ma il sole non ha colpe. Esiste, illumina, e nel farlo ci costringe a guardarci dentro.

La luce, nella visione del poeta, non è mai neutra: o abbaglia o svela. E noi, in quanto esseri illuminati, non possiamo più fingere.

“Inno al sole” di Pablo Neruda (1923)

Ordito di oro torbido e di oro del mattino:
Eredità australe. Cataratta di rame e di bronzo fusi,
latte di luce, suono:
Eredità astrale!

Altar multifungente per la mia anima inchinata
davanti al giorno dorato che già penetra in essa…
Carro di luce dove vanno le mie mani stanche
di vendemmiare spine e seminare stelle.

Quando verrà la notte mi metterò in ginocchio
aspettando che venga da dove ti perdesti.
Lascerai nella mia vita le tue fiamme gialle,
infilzerai i tuoi ovuli nella mia esca triste?

Padre dei vulcani e delle messi,
fa’ che il tuo parlar fecondi la mia piccola gola,
dimmi che ritmo seguono il metallo e la seta,
la cordigliera pubere e l’uccello che canta!

E che la mia bocca ardente raccolga il canto tuo,
che lo ripeta il vento, lo addolcisca la fonte:
fa’ che ogni baco mantenga il suo bozzolo
e che il bozzolo stesso canti semplicemente.

Canti la gran verità della tua vita e la mia,
il falò giovane della tua luce e del mio verso,
e la felicità sotto la notte fredda
dia una grande sveglia su un grande universo…

Saprò perché le uve maturano d’Autunno,
perché l’oro del grano ha la tua plenitudine,
perché l’albero nudo trepida nei suoi rampolli
tal quale corpo nuovo che trema in gioventù.

Padre Sole, mi dirai con la tua voce rude
che faremo domani e che facemmo prima,
e perché va tagliando la materia nuda
nostra Signora dalla falce sanguinante…

Frattanto io vado camminando addormentato…
rompendomi le tempie i roseti fioriti
vanno fermentando nella mia anima il tuo ovulo spettrale,
ordito di oro torbido e di oro del mattino,
cataratta di rame e di bronzo fusi,
Eredità astrale!

La poesia di Neruda, una lode che non celebra solo la luce

In un’epoca in cui si vive spesso nell’ombra dei filtri — estetici, sociali, perfino emotivi — dove le apparenze sono quelle che contano e i commenti sembrano fatti con uno stampo prefabbricato, leggere “Inno al sole” è un’esperienza quasi provocatoria. È come decidere di coltivare un orto invece che fare la spesa al supermercato, aprire l’ombrello per farsi ombra in estate, decidere di non tatuarsi.

La luce del sole è senza giudizi, ma dove arriva, costringe. Costringe a vedere e a vedersi. Forse è questo che ci fa paura del sole: non il caldo, non la fatica, ma la chiarezza.

Eppure, Neruda lo invoca con gratitudine, con speranza. Lo chiama “sole democratico”, perché non fa preferenze: tocca il ricco e il povero, il ladro e il giusto. Bagna tutti di verità. In questo, il sole è giustizia poetica ancor più della Provvidenza! È ugualitario nella sua presenza, e proprio per questo diventa giudice, ma senza ghigliottine. Le Messi si piegano da sole, gli uomini si siedono per propria volontà. Un giudice silenzioso che semplicemente mostra i limiti.

Sensazioni attraverso l’estate

La scrittura nerudiana, come spesso accade nella sua opera, è qui profondamente sensuale. Si ha la sensazione che la luce non sia solo una presenza luminosa, ma tattile: tocca la pelle, scorre tra le dita, attraversa le palpebre chiuse. Il sole, nella poesia, non è un’entità lontana nel cielo, ma una creatura viva, pulsante, che convive con l’uomo. Diventa simbolo di una verità primitiva e al tempo stesso raffinata.

La luna è il sole, quando la poetica cambia

È interessante notare che, mentre altri poeti celebrano la luna, la notte, il sogno, qui l’attenzione è spostata sul giorno. Non c’è mistero velato nel cielo, ma chiarore.

“Inno al sole” non è il canto di un mistico, ma di un uomo che sa cosa significa sporcarsi le mani, lottare, amare, piangere sotto il sole, che diventa testimone di ciò che accade quando il buio si ritrae. Ed è allora che avviene il cambiamento.

“Inno al sole” non ha bisogno di grandi interpretazioni. È un richiamo a vivere alla luce del sole, cioè alla luce della verità. A non nascondersi, a non mascherarsi. Un invito ad affrontare se stessi così come si è, senza timori, nella luce che brucia ma allo stesso tempo guarisce.

Rileggerla oggi, a distanza di poco più in un secolo, è come fare un salto nel tempo e collegare una linea tra due realtà, scoprendo che in fondo non siamo cambiati poi molto. E Neruda, con il suo inno, ce lo ricorda: la luce arriva, sempre. E quando lo fa, niente è più come prima.

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