“Incendio” è un componimento breve, che appartiene alla stagione più intensa della poetica di Sibilla Aleramo (1876-1960), autrice che usò le parole per auto-affermarsi come donna nel mondo, ma anche per proteggersi da esso.
In questi versi non c’è una vera misura: Sibilla Aleramo grida il senso dell’amore, che per lei non è un vincolo gentile, ma un incendio distruttivo, capace di polverizzare “la distanza e l’intera terra”.
Aleramo, che nella sua vita conobbe legami complessi e appassionati — da Giovanni Cena a Dino Campana —, riversa in questi versi la bruciante passione di un sentimento che non ammette vuoti né ritardi. E se l’attesa si fa tortura, il ritorno dell’amato è condizione di vita…
Leggiamola insieme:
“Incendio” di Sibilla Aleramo
Incendiare
la distanza e l’intera terra
e tutte le parole, vane!
Questo rantolare
non l’odi?
Questo disfarmi non vedi.
Odore delle mie braccia,
luce estiva,
fiamme, fiamme,
orrore di me se tu non torni!
Bruciarti come un tronco!
Sordo, vano amore!
Felicità sul mondo
un giorno era,
incendio sul mondo oggi
e orrore di me di te
se tu non torni!
Il linguaggio come una febbre che sale
Ogni verso è una tacca in più sul termometro di questa poesia. “Incendio” non descrive, è un un dettato spezzato, sincopato, che sembra registrare il ritmo del cuore e del respiro di chi l’ha creato e di chi ancora lo legge. Aleramo non costruisce immagini armoniche: la sua parola è urgenza, frattura, ossessione.
Questa poesia è il ritratto di una passione che non conosce misura, dove il desiderio e la distruzione si intrecciano in un unico moto: “Incendiare / la distanza e l’intera terra”. È così che inizia ed è così che il fuoco diventa simbolo di vita e morte, di energia vitale e di distruzione.
Ma la poesia non è solo grido amoroso: è anche confessione di fragilità. “Orrore di me se tu non torni”: dietro la maschera di forza si intravede la paura di un vuoto che risucchia. È questa tensione tra onnipotenza e abbandono che fa di Incendio una lirica estrema e modernissima.
“Questo rantolare / non l’odi? / Questo disfarmi non vedi.” Il tono è accusatorio. Due domande che implorano un focus carnale, che chiedono ascolto e aiuto. “Rantolare” / “disfarmi” sono immagini fisiche che non possono essere ignorate e traducono il dolore in azione.
“Odore delle mie braccia, / luce estiva, / fiamme, fiamme”: la sequenza si fa visionaria: odore, luce, fiamme. Tre versi quasi eterei, sensoriali che esplodono flash, ricordi, creando un climax febbrile. La ripetizione di “fiamme” accentua l’ossessione, la totale identificazione dell’io con un amplesso amoroso.
“Orrore di me se tu non torni! / Bruciarti come un tronco! / Sordo, vano amore!” Qui la tensione raggiunge il culmine: il desiderio si capovolge in violenza simbolica. “Bruciarti come un tronco” non è solo immagine erotica, ma volontà di possesso che sfiora l’autodistruzione. Subito dopo, la disillusione: “Sordo, vano amore!”. Il fuoco non riscalda, non consola: è un rogo sterile, che lascia cenere.
La vita di Sibilla Aleramo come materia ardente
Sibilla Aleramo, pseudonimo di Rina Faccio, fu scrittrice, poetessa, figura centrale del femminismo italiano del Novecento. La sua vita, segnata da esperienze traumatiche — un matrimonio forzato, la separazione dal figlio, le battaglie per l’emancipazione femminile — si intrecciò sempre con la scrittura.
Se il romanzo “Una donna” (1906) le diede fama come voce del riscatto femminile, la poesia rivelò il suo volto più segreto: quello dell’amante inquieta, in cerca di assoluto.
Nei versi di “Incendio” possiamo leggere il riflesso delle sue relazioni tempestose, come quella con Dino Campana, dove amore e tormento si fusero in un nodo inscindibile.
Il fuoco di questa poesia è il fuoco di Sibilla: non un ornamento retorico, ma un’esperienza vissuta realmente, che diventa parola attraverso la penna di una poetessa eccezionale per non dissolversi nel silenzio.