“Impossibilità” (1897) di Kavafis, una poesia che consola e ferisce

14 Agosto 2025

La poesia di Kavafis "Impossibilità" che parla delle vite non vissute con "gioia benedetta", tra dolore e consolazione. Scoprila nell'articolo.

“Impossibilità” (1897) di Kavafis, una poesia che consola e ferisce

Impossibilità” è una breve poesia scritta nel 1897 da un giovane Costantino Kavafis – appena trentiquattrenne – che racchiude in appena otto versi una drammatica verità: la gioia ambivalente — da lui chiamata “benedetta” — che nasce dal dolore di ciò che non possiamo avere.

Non c’è ribellione in questa poesia, non ci sono sotto-tracce evidenti o messaggi subliminali; è un messaggio aperto, un’accettazione lucida, quasi filosofica, di quell’orizzonte irraggiungibile che dà senso all’esistenza.

La poesia si presenta come due quartine in rima alternata (ABAB / CDCD) e porta al centro un pensiero antico e moderno insieme: ciò che non è dato vivere, ciò che rimane nell’ambito dell’impossibile, ha un fascino e una dolcezza più intensi della realtà.

“Impossibilità” (1897) di Costantino Kavafis

Eppure c’è una gioia, una gioia benedetta,
una consolazione, proprio nel dolore.
A questa fine, quante legioni
di giorni volgari, quanto tedio manca!
Disse un poeta: «Le melodie ascoltate
sono dolci. Ma ancor più dolci sono quelle inaudite».
E io penso che di gran lunga più eccellente
sia la vita che non è dato vivere.

Kavafis non propone un’ode all’azione, né un invito alla rassegnazione passiva. La poesia altro non è che uno sguardo intimo alla condizione universale dell’esperienza umana, attraversata sì dal desiderio ma impossibilitata a ottenere il tutto, perché non tutto è realizzabile.

L’“impossibilità” diventa, così, non un limite sterile, ma un luogo mentale in cui rifugiarsi, capace di preservare purezza e fascino.

Analisi dei passaggi chiave

“Disse un poeta: «Le melodie ascoltate / sono dolci. Ma ancor più dolci sono quelle inaudite».”

È una citazione reale di Keats che, seppur non viene nominato — Kavafis dice solo “un poeta” —, viene ripresa quasi alla lettera.

Keats, infatti, nell’“Ode a un’urna greca” scrisse “Heard melodies are sweet, but those unheard are sweeter” parlando delle melodie incise, destinate a non svanire mai perché non suonate nel tempo.

“La vita che non è dato vivere”

Il verso conclusivo è il fulcro della poesia, la vita impossibile che dà il titolo al componimento. Non è una sconfitta, ma un altare dove custodire ciò che non si vuole corrompere con la realtà. Qui l’impossibile diventa arte, memoria e aspirazione allo stesso tempo.

Nota biografica e intreccio con la poesia

Costantino Kavafis (1863-1933) visse gran parte della sua vita ad Alessandria d’Egitto, in un contesto multiculturale e lontano dalle grandi capitali letterarie europee. Lontano dagli epicentri della poesia occidentale, coltivò un linguaggio intimo e ironico, in equilibrio tra il simbolismo e il realismo storico.

Nel 1897, anno in cui scrisse “Impossibilità”, Kavafis era un uomo ancora giovane ma già consapevole delle limitazioni che il contesto sociale e personale gli imponeva. La sua omosessualità, vissuta in una società conservatrice, e la sua inclinazione a relazioni spesso impossibili o clandestine, alimentano la percezione che certi desideri, pur vividi, non potessero mai diventare quotidianità.

In questo senso, la poesia non è solo un esercizio filosofico, ma un autoritratto emotivo: l’amore non vissuto, le amicizie spezzate dalla distanza, le vite alternative immaginate e mai raggiunte diventano “la vita che non è dato vivere” di cui parla il verso finale.

Perché proprio l’impossibilità

Il brocardo latino ad impossibilia nemo tenetur (“nessuno è tenuto all’impossibile”) ci ricorda che non possiamo essere obbligati a realizzare ciò che non si può fare. Kavafis, però, va oltre: suggerisce che proprio l’impossibile custodisce un senso speciale. Non è la rivolta a muoverlo, ma la capacità di trasformare il limite in contemplazione.

Il poeta non protesta perché ha già compreso che certi ostacoli sono parte integrante di sé. Come scriverà in altre poesie, le lotte più grandi sono interiori, e la vittoria consiste nell’accogliere le contraddizioni senza distruggerle.

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