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“Il Primo Amore” (1817) di Giacomo Leopardi, sublime racconto su cosa si prova la prima volta

Hai mai provato a capire cosa succede quando t'innamori per la prima volta? Scoprilo con "Il Primo Amore" poesia di Giacomo Leopardi.

Il Primo Amore di Giacomo Leopardi è una poesia che mette in scena la sofferenza che provoca l’amore quando non è contraccambiato dalla persona che si ama. Una visione dell’amore in pieno stile leopardiano, in cui le emozioni che dovrebbe scatenare l’amore, anziché essere positive, diventano l’esatto opposto.

Ma, se ci pensiamo la sofferenza che crea molte volte l’innamoramento è più frequente di quanto si pensa. Tale sofferenza non è solo tipica dell’adolescenza, dove il soffrire d’amore è quasi una condizione necessaria, ma, anche, e sempre più diffusamente, del mondo degli adulti.

Il Primo Amore fu scritto a Recanati nel 1817, da un quasi ventenne Leopardi, ed è il decimo dei Canti, raccolta pubblicata per la prima volta a Firenze nel 1831.

La poesia fu stimolata dalla figura della cugina Geltrude Cassi-Lazzari, che Leopardi incontrò nella sua casa di Recanati nel dicembre del 1817, quando la cugina andò in visita dei Leopardi insieme alla sua famiglia. C’è da dire che Geltrude era più grande del cugino di sette anni ed era sposata con il nobiluomo Giovanni Giuseppe Lazzari.

Ma, leggiamo questa sofferta e profonda poesia d’amore di Giacomo Leopardi per coglierne il messaggio del suo autore.

Il Primo Amore di Giacomo Leopardi

Tornami a mente il dì che la battaglia
D’amor sentii la prima volta, e dissi:
Oimè, se quest’è amor, com’ei travaglia!

Che gli occhi al suol tuttora intenti e fissi,
Io mirava colei ch’a questo core
Primiera il varco ed innocente aprissi.

Ahi come mal mi governasti, amore!
Perchè seco dovea sì dolce affetto
Recar tanto desio, tanto dolore?

E non sereno, e non intero e schietto,
Anzi pien di travaglio e di lamento
Al cor mi discendea tanto diletto?

Dimmi, tenero core, or che spavento,
Che angoscia era la tua fra quel pensiero
Presso al qual t’era noia ogni contento?

Quel pensier che nel dì, che lusinghiero
Ti si offeriva nella notte, quando
Tutto queto parea nell’emisfero:

Tu inquieto, e felice e miserando,
M’affaticavi in su le piume il fianco,
Ad ogni or fortemente palpitando.

E dove io tristo ed affannato e stanco
Gli occhi al sonno chiudea, come per febre
Rotto e deliro il sonno venia manco.

Oh come viva in mezzo alle tenebre
Sorgea la dolce imago, e gli occhi chiusi
La contemplavan sotto alle palpebre!

Oh come soavissimi diffusi
Moti per l’ossa mi serpeano, oh come
Mille nell’alma instabili, confusi

Pensieri si volgean! qual tra le chiome
D’antica selva zefiro scorrendo,
Un lungo, incerto mormorar ne prome.

E mentre io taccio, e mentre io non contendo,
Che dicevi, o mio cor, che si partia
Quella per che penando ivi e battendo?

Il cuocer non più tosto io mi sentia
Della vampa d’ amor, che il venticello
Che l’aleggiava, volossene via.

Senza sonno io giacea sul dì novello,
E i destrier che dovean farmi deserto,
Battean la zampa sotto al patrio ostello.

Ed io timido e cheto ed inesperto,
Ver lo balcone al buio protendea
L’orecchio avido e l’occhio indarno aperto,

La voce ad ascoltar, se ne dovea
Di quelle labbra uscir, ch’ultima fosse;
La voce, ch’altro il cielo, ahi, mi togliea.

Quante volte plebea voce percosse
Il dubitoso orecchio, e un gel mi prese,
E il core in forse a palpitar si mosse!

E poi che finalmente mi discese
La cara voce al core, e de’ cavai
E delle rote il romorio s’intese;

Orbo rimaso allor, mi rannicchiai
Palpitando nel letto e, chiusi gli occhi,
Strinsi il cor con la mano, e sospirai.

Poscia traendo i tremuli ginocchi
Stupidamente per la muta stanza,
Ch’altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi?

Amarissima allor la ricordanza
Locommisi nel petto, e mi serrava
Ad ogni voce il core, a ogni sembianza.

E lunga doglia il sen mi ricercava,
Com’è quando a distesa Olimpo piove
Malinconicamente e i campi lava.

Ned io ti conoscea, garzon di nove
E nove Soli, in questo a pianger nato
Quando facevi, amor, le prime prove.

Quando in ispregio ogni piacer, nè grato
M’era degli astri il riso, o dell’aurora
Queta il silenzio, o il verdeggiar del prato.

Anche di gloria amor taceami allora
Nel petto, cui scaldar tanto solea,
Che di beltade amor vi fea dimora.

Nè gli occhi ai noti studi io rivolgea,
E quelli m’apparian vani per cui
Vano ogni altro desir creduto avea.

Deh come mai da me sì vario fui,
E tanto amor mi tolse un altro amore?
Deh quanto, in verità, vani siam nui!

Solo il mio cor piaceami, e col mio core
In un perenne ragionar sepolto,
Alla guardia seder del mio dolore.

E l’occhio a terra chino o in se raccolto,
Di riscontrarsi fuggitivo e vago
Nè in leggiadro soffria nè in turpe volto:

Che la illibata, la candida imago
Turbare egli temea pinta nel seno,
Come all’aure si turba onda di lago.

E quel di non aver goduto appieno
Pentimento, che l’anima ci grava,
E il piacer che passò cangia in veleno,

Per li fuggiti dì mi stimolava
Tuttora il sen: che la vergogna il duro
Suo morso in questo cor già non oprava.

Al cielo, a voi, gentili anime, io giuro
Che voglia non m’entrò bassa nel petto,
Ch’arsi di foco intaminato e puro.

Vive quel foco ancor, vive l’affetto,
Spira nel pensier mio la bella imago,
Da cui, se non celeste, altro diletto

Giammai non ebbi, e sol di lei m’appago.

Alla scoperta del Primo Amore di Leopardi

Il Primo Amore è una poesia di Giacomo Leopardi che ci fa esplorare i sentimenti che riesce a scatenare l’amore quando inizia a far sentire i suoi effetti in chi lo vive. Il giovane Leopardi ci porta in un viaggio all’interno della sua anima, dove la “donna immaginata”, la “donna sognata” è la protagonista dei suoi tormenti interiori.

Il Canto X di Leopardi è un viaggio introspettivo all’interno delle emozioni del poeta. Una lunga notte insonne e la partenza di Geltrude Cassi-Lazzari, diventano un monologo interiore in cui il poeta ci trasferisce ciò che prova, attimo dopo attimo.

Sembra di leggere il “diario” di Giacomo Leopardi, all’interno del quale si colgono gli aspetti più intimi. Scorrendo i versi della poesia sembra di vivere il racconto di un giovane che scopre qualcosa di mai vissuto prima, ovvero gli effetti dell’innamoramento.

Proviamo ad immaginare che, per un giovane così sensibile com’era Leopardi, vivere il subbuglio emotivo che può provocare l’essenza femminile in un maschio, fu un esperienza devastante.

La grande contraddizione tra quell’immagine di una donna seppur giovane, ma più matura di lui, gli provoco un effetto a catena incontrollabile. Mai aveva vissuto una cosa simile e il caos che ne seguì gli provocò una frustrazione devastante.

Ecco perché vogliamo leggere la poesia nel modo in cui il poeta aveva intenzione di condividerla, come un racconto alla scoperta delle sue emozioni più intime. Giacomo Leopardi riesce con la maestria poetica che lo caratterizza a donarci una pagina del suo “diario” più intimo e nascosto.

Il grande genio di Recanati, malgrado la tempesta emotiva provata, tiene a giurare che fu solo la bellezza spirituale della donna ad averlo sconvolto. Anche se nel penultimo verso della poesia forse per un senso di onestà gli sfugge, “Da cui, se non celeste, altro diletto”, ovvero che in fin dei conti “la bella imago” in fondo non era così divina.

Il diario del “primo amore”

La poesia inizia con la scoperta di ciò che provoca l’amore, il primo amore che molte volte può coincidere con “il colpo di fulmine”, in chi lo vive. Il poeta descrive l’amore come una vera battaglia. E rimane sorpreso del fatto di scoprire che l’affligge, che lo tormenta, che gli toglie la gioia.

Giacomo Leopardi lamenta che, al primo incontro con Geltrude, lui non osava fissarla negli occhi, teneva lo sguardo basso e s’immaginava che quella donna gli avesse generato un varco enorme nel suo cuore innocente.

Il poeta avverte effetti incontrollati e non controllabili. Diventa sottomesso al desiderio straziante e doloroso di lei. Non riesce a capire cosa gli stia accadendo. Avverte come un piacere pieno di angoscia e il dolore gli scende dal cuore.

Leopardi si interroga sul perché di quella sensazione, quel pensiero felice gli provoca paura, angoscia.

E quel pensiero di lei, quel desiderio senza controllo lo aveva accompagnato durante il giorno. E non smetteva neppure con l’arrivo della notte, quando sperava di poter stordire quell’incessante desiderio grazie al sonno.

Ma, la notte non riesce a conciliare il sonno e malgrado lo scorrere delle ore il poeta continua a struggersi e il cuore palpitava senza nessun freno.

Malgrado la stanchezza cominciasse a prendere il sopravvento, e le palpebre iniziassero finalmente a chiudersi, come per una febbre, una malattia o un delirio, il sonno veniva meno.

A questo punto l’immagine di Geltrude gli compare luminosa davanti, malgrado il buio. E Leopardi può finalmente fissarla perfettamente, tenendo gli occhi chiusi, serrati, come a tenerla ferma tra la palpebre.

A questo punto il poeta comincia ad avvertire tremori diffusi in tutto il corpo, che si propagavano nell’anima. Instabili e confusi pensieri si rivolgevano.

Giacomo Leopardi ci offre una metafora. Ciò che provava era come il vento primaverile (zefiro) che percorreva le fronde degli alberi di un’antica foresta. Sente un lungo incerto mormorare che lo scuoteva.

In lui c’è il rammarico e la pena che Geltrude stia andando via, stia partendo. A quel punto non sentiva più il calore della vampa d’amore, il vento che aveva provocato quegli incontrollabili effetti stava volando via.

Non aveva chiuso occhio tutta la notte e arrivate le prime luci del giorno sente lo scalpitio dei cavalli che devono portare via Geltrude da casa sua (paterna). E allora timido, silenzioso, un po’ goffo, il poeta cerca di ascoltare, è nascosto prova a guardare invano la sua amata.

In lui c’era il desiderio di sentire la sua voce, almeno un’ultima parola. Il poeta dice “La voce, ch’altro il cielo, ahi, mi togliea”.

Sentiva il vocio di una voce nota, forse quella del cocchiere, che scambia con quella di Geltrude, così tanto era il desiderio di lei. E in quel momento il gelo invase il giovane Leopardi, facendogli battere il cuore forte.

Finalmente, però riesce a sentire la voce di lei, proprio nel momento in cui gli zoccoli dei cavalli fanno sentire il loro rumore. Evidentemente la donna salutava qualcuno, ma ormai stava andando via.

Giacomo Leopardi avverte subito gli effetti di quella partenza. Rimase come cieco, piomba nel buio. Si rannicchia nel letto con il cuore palpitante, e istintivamente si porta la mano al cuore tentando di calmarlo. Tira un profondo sospiro.

Prova a muoversi, a reagire e inizia a trascinarsi con le ginocchia tremanti per la stanza silenziosa, domandandosi chi altri gli avrebbe toccato il cuore in quel modo.

Il ricordo di lei amarissimo inizia a inondargli il petto e il cuore gli si chiude nel sentire ogni voce, nel vedere ogni immagine.

A quel punto il dolore si trasforma in pianto, come pioggia di lava che scende sulla distesa dell’Olimpo. La malinconia prende il sopravvento.

Il poeta lamenta di non aver mai provato un dolore simile, scoprendo gli effetti che può avere l’amore, banalmente provocandogli un pianto incontrollato.

Mai da ragazzo aveva provato qualcosa di simile, ogni tanto era stato attratto dalla bellezza femminile, ma mai aveva vissuto queste cose.

Cerca di capire come mai aveva provato grazie a Geltrude quelle emozioni e allo stesso tempo si vive come vano e inutile. Vive in disparte provando quel mal d’amore che lo rende pago. Solo rifletteva sui suoi turbamenti d’amore, sedeva a guardia del suo intimo e nascosto dolore.

Teneva gli occhi a terra e lo sguardo raccolto timoroso di mostrare la propria sofferenza alle anime volgari che non l’avrebbero intesa.

Temeva, in tal senso, di turbare la candida, perfetta immagine che conservava chiusa nel petto, così come alla luce si increspa la placida onda del lago.

E rimpiangeva di non aver goduto appieno di quell’ultimo giorno, in cui Geltrude era ancora a casa Leopardi, un grave rimpianto che gli pesava sull’anima. Ed ecco che il piacere provato un tempo si trasforma in veleno.

Il rimpianto per i giorni perduti gli covava dentro, dove la vergogna ancora non aveva stretto il cuore nella sua morsa. E Leopardi tiene a fare un giuramento che per lui quell’amore, quella donna non gli provocò mai un desiderio carnale. Il suo amore era spirituale, incontaminato, puro.

E continuava a vivere quel fuoco, il sentimento nei riguardi della cugina. Soffiava ancora nel suo pensiero la bella immagine di lei, anche se di pone un dubbio il poeta, forse non fu divina, ovvero così spirituale fino in fondo.

La bella immagine di lei così come definita fu il solo piacere d’amore che il poeta ebbe e di quella spiritualità continuava a nutrirsi.

Cosa dire di un racconto così, seppur struggente e complesso, è uno dei più bei racconti sul primo amore della storia della letteratura mondiale.

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